La “guerra dei sei giorni” poteva essere evitata? Rivelazioni esclusive dello storico Ilan Pappé
Secondo la retorica sionista, la “Guerra dei sei giorni” del 1967 fu una guerra «senza alternative», alla quale lo Stato di Israele non poté fare a meno di partecipare. Ma fu davvero così? Lo storico Ilan Pappè, rappresentante della cosiddetta “nuova storiografia israeliana”, ci rivela una realtà ben diversa…
Nel giugno 1982, in seguito all’attacco israeliano in Libano, si aprì un dibattito su quanto lo Stato israeliano fosse effettivamente in una situazione “senza alternative”, se non quella di seguire la linea d’azione violenta ormai intrapresa, come veniva ripetuto sui canali ufficiali. All’epoca, l’opinione pubblica israeliana era divisa fra coloro che ritenevano la campagna necessaria e giustificata, e coloro che dubitavano della sua validità morale. Nell’avanzare le proprie argomentazioni, entrambe le parti utilizzarono la guerra del 1967 come riferimento, identificando il conflitto precedente come un esempio irreprensibile di una guerra, per l’appunto, “senza alternative”. Ma anche questo è un mito.
Secondo tale narrazione ampiamente accettata, la guerra del 1967 costrinse Israele ad occupare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza e a tenerle sotto il proprio controllo fino a quando il mondo arabo, o i palestinesi, non sarebbero stati disposti ad avviare trattative di pace con lo Stato ebraico. Da qui emerge un altro mito, e cioè il fatto che i leader palestinesi siano talmente intransigenti da rendere impossibile qualsiasi accordo di pace. Questa argomentazione genera l’impressione che la dominazione israeliana sia temporanea: i territori devono semplicemente rimanere in custodia in attesa di una posizione palestinese più “ragionevole”.
Per riconsiderare la guerra del 1967, bisogna prima risalire alla guerra del 1948. L’élite politica e militare israeliana considerava quest’ultima come un’occasione mancata: un momento storico in cui Israele avrebbe potuto e dovuto occupare l’intera Palestina storica dal fiume giordano al mar Mediterraneo. Desistette unicamente per via di un accordo che aveva stipulato con la vicina Giordania, un’intesa negoziata durante gli ultimi giorni del mandato britannico e che, una volta finalizzata, limitò la partecipazione militare dell’esercito giordano e il suo impegno nella guerra del 1948. In cambio, alla Giordania fu permesso di annettere le zone palestinesi della Cisgiordania. David Ben Gurion, che mantenne gli impegni presi prima del 1948, definì la decisione di consentire la Giordania di occupare la Cisgiordania «bechiya ledorot» – che significa letteralmente “causa di lagnanza per generazioni”. Una traduzione più metaforica potrebbe essere quella di un “fatale errore storico”.
Fin dal 1948, importanti sezioni delle élite culturali, militari e politiche ebraiche cercarono un’opportunità per correggere questo errore. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, pianificarono attentamente come creare un Israele più grande che includesse anche la Cisgiordania. Ci sono stati diversi frangenti storici in cui il piano è stato al punto di essere eseguito, per essere ritirato poi all’ultimo momento. I più famosi tra questi momenti si verificarono nel 1958 e nel 1960, quando Ben Gurion interruppe l’esecuzione del piano per paura delle possibili reazioni internazionali e, in secondo luogo, per motivi demografici (calcolando che Israele non poteva inglobare un numero così elevato di palestinesi). L’occasione migliore arrivò con la guerra del 1967. Più avanti spigherò le origini di tale guerra, sostenendo che, qualunque sia la narrazione storica delle sue cause, si debba considerare attentamente il ruolo che giocò la Giordania. Ad esempio, era necessario occupare e controllare la Cisgiordania per mantenere le relazioni relativamente buone tra Israele e Giordania, che duravano dal 1948? Se la risposta è negativa, come credo, allora è necessario chiedersi perché Israele abbia perseguito questa politica, e cosa questa guerra ci dica sulla probabilità che Israele rinunci mai alla Cisgiordania in futuro. Anche se, come ci racconta la mitologia ufficiale israeliana, la Cisgiordania venne occupata per rappresaglia contro l’aggressione giordana del 5 giugno 1967, rimane da dichiarare perché Israele sia rimasto in Cisgiordania dopo che il pericolo di un attacco era ormai scampato. Dopo tutto, ci sono molti precedenti di azioni militari di aggressione che non si sono concluse con un’espansione territoriale dello Stato di Israele. Come cercherò di dimostrare in questo articolo, l’inclusione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza all’interno di Israele faceva parte del progetto sionista dal 1948, anche se venne poi messo in atto solo nel 1967.
La guerra del 1967 era inevitabile? Possiamo iniziare a rispondere esaminando i fatti del 1958, anno descritto nella letteratura accademica sul Medio Oriente moderno come “rivoluzionario“. Durante quell’anno, le idee progressiste e radicali che avevano portato al potere i Liberi ufficiali egiziani al Cairo cominciarono a diffondersi in tutto il mondo arabo. Questa tendenza veniva sostenuta dall’Unione Sovietica e quasi inevitabilmente contrastata dagli Stati Uniti. Questo dispiegarsi della Guerra fredda in Medio Oriente aprì incredibili opportunità per coloro che in Israele cercavano un pretesto per correggere il fatale errore storico del 1948. La decisione fu sicuramente influenzata da una potente lobby all’intero del governo e dell’esercito israeliano, guidata dagli eroi di guerra del 1948, Moshe Dayan e Yigal Allon. Quando in Occidente si diffuse un certo consenso sul fatto che il “radicalismo” egiziano avrebbe potuto contagiare altri paesi, inclusa la Giordania, la lobby in questione raccomandò al Primo Ministro Ben Gurion di avvicinarsi alla NATO per promuovere l’idea di un’occupazione preventiva della Cisgiordania.
Questo scenario divenne ancor più plausibile nel momento in cui l’Iraq cadde nelle mani di ufficiali progressisti e persino radicali. Il 14 luglio 1958, un gruppo di ufficiali iracheni organizzò un colpo di Stato militare che fece cadere la dinastia degli Hascemiti, messa al potere dagli inglesi nel 1921 per mantenere l’Iraq nella sfera d’influenza occidentale. La recessione economica, il nazionalismo e i forti legami con l’Egitto e l’URSS innescarono un movimento di protesta che portò gli ufficiali al potere. Esso era guidato da un gruppo, il cui capo era Abd al-Karim Qasim, che si autodefiniva a sua volta «appartenente ai Liberi ufficiali», ed emulando l’azione dei miliari egiziani di sei anni prima sostituì la monarchia con la repubblica in Iraq.
All’epoca, la paura dell’Occidente era che il Libano potesse seguire questi esempi e cadere anch’esso sotto il controllo delle forze rivoluzionarie. La NATO decise quindi di anticipare questo scenario inviando i propri contingenti (Marines statunitensi in Libano e Forze Speciali britanniche in Giordania). Non c’era né il bisogno, né il desiderio di coinvolgere Israele in questa Guerra fredda che si stava sviluppando nel mondo arabo. Quando venne resa nota l’idea israeliana di “salvare” almeno la Cisgiordania, Washington la respinse in modo netto. Sembra, tuttavia, che in questa fase Ben Gurion fosse abbastanza felice di essere dissuaso. Non aveva alcun desiderio di minare il successo demografico del 1948 e soprattutto non voleva cambiare l’equilibrio fra ebrei e arabi in un nuovo più grande Israele includendo i palestinesi che vivevano in Cisgiordania. Nel suo diario riferì di aver spiegato ai suoi Ministri che occupare la Cisgiordania avrebbe costituito un grave pericolo demografico: «Ho parlato loro del pericolo di incorporare un milione di arabi in uno Stato che ha una popolazione di un milione e tre quarti». Per la stessa ragione riuscì a frenare un altro tentativo della lobby espansionista, che si era fatta ben più aggressiva, quando questa provò a sfruttare un’altra crisi, due anni dopo, nel 1960. Finché Ben Gurion rimase al potere, la lobby, brillantemente descritta nel libro di Tom Segew 1967: Israel, the war and the year that transformed the Middle East, non poteva avere successo. Tuttavia, nel 1960, era diventato molto più difficile contenerla. Infatti, in quell’anno, tutti gli elementi che avrebbero poi segnato la crisi del 1967 erano allineati e avevano tutto il potenziale per far scoppiare una nuova guerra. Ma la guerra venne scongiurata, o almeno ritardata.
Nel 1960, il primo attore davvero significativo fu il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, che condusse una pericolosa “politica del rischio calcolato“, come avrebbe fatto sei anni dopo. Nasser acuì la retorica di guerra contro Israele minacciando di spostare truppe nella smilitarizzata penisola del Sinai e di bloccare il passaggio delle navi nella città meridionale di Eilat. Le sue motivazioni erano le stesse nel 1960 come nel 1967: temeva che Israele avrebbe attaccato la Siria, che tra il 1958 e il 1962 si era unita formalmente all’Egitto nella cosiddetta Repubblica Araba Unita (RAU). Dalla firma dell’armistizio fra Israele e Siria, nell’estate del 1949, parecchie questioni erano rimaste in sospeso. Fra queste, vi era il controllo su alcuni territori denominati dalle Nazioni Unite “terre di nessuno”, che entrambe le parti rivendicavano. Di tanto in tanto, Israele incoraggiava membri dei Kibbutz e degli insediamenti adiacenti ad andare a coltivarle, ben sapendo che ciò avrebbe innescato una risposta siriana dalle alture del Golan. Questo fu esattamente ciò che accadde nel 1960, a cui seguì una prevedibile escalation: l’aviazione israeliana diede prova di sé per dimostrare la propria supremazia sui jet russi impiegati dall’aviazione siriana. Seguirono combattimenti aerei e scambi di fuoco, furono presentate denunce al Comitato per l’Armistizio e regnò una tregua precaria fino a quando gli scontri ripresero nuovamente. Una seconda fonte di attrito fra Israele e Siria riguardò la costruzione israeliana del cosiddetto condotto idrico nazionale, un enorme progetto che includeva viadotti, tubazioni e canali, tra gli estuari del fiume giordano e il sud dello Stato di Israele. I lavori iniziarono nel 1953 e finirono per includere anche la sottrazione di alcune risorse idriche necessarie alla sopravvivenza della popolazione siriana e libanese. In risposta, i leader siriani riuscirono a convincere i loro alleati egiziani della RAU che Israele avrebbe potuto lanciare una campagna militare a tutto campo contro la Siria per assicurarsi le alture strategiche del Golan e le sorgenti del fiume Giordano.
Nasser aveva un altro motivo per ribaltare il precario equilibrio dentro e intorno alla Palestina storica. Voleva rompere la stasi diplomatica creatasi intorno alla questione palestinese e sfidare l’indifferenza globale. Come ha indicato Avi Shlaim nel suo libro Il muro di ferro, Nasser avrebbe anche avuto qualche speranza di trovare una via di uscita dall’impasse quando negoziò con Moshe Sharett, Ministro degli Esteri israeliano e personaggio relativamente accomodante, che per un breve momento, a metà degli anni Cinquanta, fu anche Primo Ministro. Tuttavia, Nasser capì che il potere era nelle mani di Ben Gurion, e una volta che quest’ultimo tornò ad occupare il ruolo di Primo Ministro nel 1955, rimasero poche speranze di raggiungere un accordo di pace fra i due paesi.
Mentre questi negoziati avevano luogo, le due parti discutevano la possibilità di un passaggio di terra egiziano nel Naqab in cambio della fine dello stallo diplomatico. Questa era una prima timida idea che non venne però ulteriormente sviluppata, e non c’è modo di sapere se avrebbe potuto portare ad un trattato di pace bilaterale. Quello che è noto è che c’erano poche possibilità di un accordo di pace bilaterale tra Israele ed Egitto finché fu Primo Ministro Ben Gurion: egli – persino quando non fu più in carica – fece ricorso ai suoi legami con l’esercito per convincere i comandanti a lanciare diverse operazioni militari di provocazione contro le forze egiziane nella Striscia di Gaza, proprio mentre erano in corso i negoziati. Il pretesto per queste operazioni fu rappresentato dalle infiltrazioni di profughi palestinesi dalla Striscia di Gaza in Israele, che gradualmente si militarizzarono dando vita ad una vera e propria guerriglia contro lo Stato ebraico. Israele reagì distruggendo le basi egiziane e uccidendo le truppe.
Gli sforzi di pace si arenarono a tutti gli effetti una volta che Ben Gurion tornò al potere e si unì, nel 1956, a Gran Bretagna e Francia in un’alleanza militare indirizzata a rovesciare Nasser. Non c’è da stupirsi che, quattro anni dopo, quando cominciò ad ideare una guerra contro Israele, Nasser considerò queste manovre come una mossa preventiva per salvare il suo paese da un possibile attacco anglo-franco-israeliano. Così, nel 1960, quando la tensione al confine israelo-siriano crebbe senza che ci fossero progressi di alcun tipo sul fronte diplomatico, Nasser elaborò una nuova strategia, quella precedentemente menzionata come “politica del rischio calcolato“. Lo scopo di questo piano era quello di vagliare continuamente tutto ciò che era possibile; in questo caso specifico, l’obiettivo era valutare fino a che punto i preparativi e le minacce militari potessero influenzare la realtà politica, senza però dare vita ad uno scontro vero e proprio. Il successo di tale strategia del rischio dipendeva da due fattori: l’abilità della persona che la portava avanti, ma anche le risposte imprevedibili di coloro contro i quali era diretta. Ed è qui che qualcosa poteva andare terribilmente storto come accadde nel 1967.
Nasser attuò questa strategia per la prima volta nel 1960, e la ripeté in maniera simile nel 1967. Inviò forze nella penisola del Sinai, che avrebbe dovuto essere una zona smilitarizzata secondo l’accordo che aveva posto fine alla guerra del 1956. Il governo israeliano e l’ONU agirono in modo molto sensato nel 1960 di fronte a questa minaccia. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Dag Hammarskjold, assunse una posizione ferma, chiedendo il ritiro immediato delle forze egiziane. Il governo israeliano tenne da parte le sue riserve in merito, ma dichiarò apertamente che non avrebbe iniziato una guerra.
Alla vigilia della guerra del 1967, tutti questi fattori giocarono un ruolo importante nello scoppio del conflitto. Due personalità, però, non erano più coinvolte: David Ben Gurion e Dag Hammarskjold. Ben Gurion aveva lasciato la scena politica nel 1963. Ironia della sorte, è stato solo dopo la sua partenza che la “lobby del Grande Israele” fu in grado di pianificare il passo successivo. Fino ad allora, la sua ossessione demografica aveva impedito l’acquisizione della Cisgiordania, ma aveva anche prodotto l’ormai familiare regime militare che Israele aveva imposto a diversi gruppi palestinesi. L’abolizione di questo regime, nel 1966, permise ad un apparato già pronto a questa eventualità – anche prima che scoppiasse la guerra del giugno 1967 – di controllare sia la Cisgiordania che la Striscia di Gaza. L’amministrazione militare che Israele aveva imposto alla minoranza palestinese nel 1948 era basata sui regolamenti d’emergenza del mandato britannico, che trattavano la popolazione civile come un potenziale gruppo nemico, privandola quindi dei suoi diritti umani e civili fondamentali. Governatori militari vennero posizionati nelle aree palestinesi e dotati di autorità esecutiva, giudiziaria e legislativa. Questo meccanismo era piuttosto ben rodato nel 1966 e permise la creazione di un regime simile in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.
Così, l’amministrazione militare sui palestinesi residenti in Israele venne abolita nel 1966, per essere imposta nel 1967 alla Cisgiordania e alla Striscia di Gaza; tutto era pronto per un’invasione. Dal 1963, un gruppo di esperti provenienti dalla sfera militare, amministrativa e accademica, aveva pianificato la transizione, preparando un manuale dettagliato su come gestire il territorio palestinese secondo le norme di emergenza, qualora si fosse presentata l’occasione. Questo conferiva all’esercito potere illimitato nel regolare ogni ambito della vita delle persone che erano soggette al regime di occupazione militare. L’opportunità di spostare questo apparato da un gruppo palestinese (la minoranza palestinese in Israele) ad un altro (i palestinesi in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza) arrivò nel 1967, quando Nasser fu incoraggiato nella sua “politica di rischio calcolato” dalla leadership sovietica, che negli ultimi giorni del 1966 temeva un’imminente attacco israeliano alla Siria. Lì, in quello stesso anno, un altro gruppo di ufficiali – fazione socialista del partito Ba’th – aveva organizzato un colpo di Stato interno al partito di governo e aveva preso il controllo dello Stato siriano. Uno dei primi atti del nuovo regime fu quello di affrontare con maggiore fermezza i piani israeliani di sfruttamento delle acque del fiume Giordano e dei suoi estuari. Il governo siriano iniziò a costruire il proprio sistema idrico e deviò il fiume in modo da assecondare i propri bisogni. L’esercito israeliano bombardò questa nuova infrastruttura: azione che condusse a più frequenti ed intensi combattimenti fra le due forze aeree. Il nuovo regime siriano, inoltre, guardava con favore al neonato Movimento di Liberazione Nazionale Palestinese, il che incoraggiò il partito Fatah a organizzare una guerriglia contro Israele sulle alture del Golan, usando il Libano come base di appoggio durante gli attacchi palestinesi alla potenza sionista. Tutto ciò aumentò esponenzialmente le tensioni fra i due Stati.
Sembra che fino all’aprile 1967, Nasser sperasse ancora che il suo carisma fosse sufficiente a forzare un cambiamento dello status quo senza ricorrere effettivamente alla guerra. Firmò un’alleanza di difesa con la Siria nel novembre 1966, dichiarando la sua intenzione di venire in aiuto di quest’ultima in caso di attacco da parte di Israele. Eppure il deterioramento della situazione al confine israelo-siriano toccò un nuovo picco nell’aprile 1967. Israele dispose un attacco militare contro le forze siriane sulle alture del Golan, con lo scopo – secondo l’allora Capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano, Yitzak Rabin – di «umiliare la Siria». Sembrava che Israele stesse facendo tutto il possibile per spingere il mondo arabo a intraprendere una nuova guerra. Fu allora che Nasser si sentì in dovere di ripetere la sua mossa del 1960: inviare, cioè, truppe nella penisola del Sinai e chiudere lo stretto di Tiran, un piccolo passaggio che collegava il golfo di Aqava con il Mar Rosso, e da cui tuttavia si poteva fermare, od ostacolare, il traffico marittimo nel porto più meridionale di Israele, Eilat. Come nel 1960. Nasser aspettò di vedere la reazione dell’ONU. Se nel 1960, Dag Hammarskgold non rimase particolarmente colpito dalla mossa egiziana (e infatti non ritirò le truppe delle Nazioni Unite, che erano di istanza nel Sinai dal 1956), il nuovo Segretario Generale, U Thant, fu meno risoluto, e ritirò prontamente le forze dell’ONU quando le truppe egiziane entrarono nella penisola. Ciò non fece altro che aumentare ulteriormente le tensioni.
Tuttavia, il fattore più importante nella corsa alla guerra fu l’assenza di qualsiasi voce autorevole contraria alla propaganda bellicista all’interno della leadership israeliana. Ciò avrebbe potuto generare una qualche forma di attrito interno, ritardando l’inseguimento del conflitto da parte dei falchi e quindi consentendo alla comunità internazionale di trovare una soluzione pacifica. Uno sforzo diplomatico guidato dagli USA era ancora in fase embrionale quando Israele lanciò il suo attacco a tutti i paesi arabi vicini il 5 giugno 1967. Non vi era alcuna intenzione da parte del governo israeliano di concedere il tempo necessario di trovare una soluzione pacifica, questa era un’occasione d’oro che Israele non poteva lasciarsi scappare.
In alcune riunioni decisive di Gabinetto prima della guerra, Abba Eban (allora Ministro degli Esteri) chiese ingenuamente ai Capi di Stato Maggiore e ai suoi colleghi quale fosse la differenza fra la crisi del 1960 e la situazione del 1967, poiché pensava che quest’ultima avrebbe potuto essere risolta allo stesso modo. «È una questione d’onore e di deterrenza», fu la risposta. Eban replicò che perdere giovani soldati solo per motivi di «onore e deterrenza» era un prezzo umano troppo alto da pagare per il neonato Stato di Israele. Sospetto che gli siano state dette altre cose non registrate nei verbali, probabilmente sulla necessità di approfittare di questa occasione unica per correggere il “fatale errore storico” di non aver occupato la Cisgiordania nel 1948.
La guerra iniziò all’alba del 5 giugno con un attacco israeliano che quasi distrusse l’aviazione egiziana. Nello stesso giorno eseguirono attacchi simili contro le forze aeree di Siria, Giordania e Iraq. Le forze israeliane invasero anche la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai e nei giorni successivi raggiunsero il canale di Suez, occupando l’intera penisola. L’attacco alla sua aviazione spinse la Giordania ad occupare una piccola zona controllata dalle Nazione Unite tra le due parti di Gerusalemme. Nel giro di tre giorni, dopo aspri combattimenti, l’esercito israeliano avrebbe occupato Gerusalemme Est (7 giugno) e due giorni dopo avrebbe cacciato l’esercito giordano dalla Cisgiordania.
Il 7 giugno il governo Israeliano era ancora incerto sull’apertura di un nuovo fronte contro i siriani sulle alture del Golan, ma i notevoli successi già ottenuti convinsero i politici israeliani a dare il via libera all’esercito per la loro occupazione. Entro l’11 giugno, Israele era diventato un mini-Impero: controllava le alture del Golan, la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai. In questo articolo, però, mi concentrerò sulla decisione israeliana di occupare la Cisgiordania.
Alla vigilia della guerra, la Giordania aveva stretto un’alleanza militare con l’Egitto e la Siria, secondo la quale si impegnava ad entrare in guerra nel momento in cui Israele avesse attaccato l’Egitto. Nonostante questo accodo, re Hussein inviò chiari messaggi ad Israele che se fosse iniziata una guerra sarebbe stato costretto ad intervenire, ma che si sarebbe trattato di un intervento breve che non avrebbe comportato una vera e propria guerra (posizione molto simile a quella del suo predecessore nel 1948). In realtà, il coinvolgimento giordano fu più che simbolico: l’aviazione giordana bombardò pesantemente Gerusalemme Ovest e i sobborghi orientali di Tel Aviv. Tuttavia, è importante ricordare a cosa stava reagendo la Giordania: la sua forza aerea era stata completamente distrutta da Israele un paio d’ore prima; a mezzogiorno del 5 giugno, re Hussein si sentiva, quindi, obbligato a reagire con più forza di quanto probabilmente avrebbe voluto.
Il problema era che l’esercito non era sotto il diretto controllo del re, ma veniva comandato da un generale egiziano: la narrazione comune di questi eventi si basa sulle memorie di Hussein e su quelle di Dean Rusk, l’allora segretario di Stato americano, secondo le quali Israele aveva inviato un messaggio conciliante a Hussein esortandolo a restare fuori dalla guerra (nonostante avesse distrutto le sue forze aeree). Il primo giorno, Israele era ancora disposto ad evitare lo scontro diretto con la Giordania, ma la reazione di quest’ultima alla distruzione della propria aviazione militare portò Israele, il giorno seguente, ad ampliare l’operazione. Hussein in realtà scrisse nelle sue memorie che, dal momento che non poteva né ignorare gli egiziani, né rischiare una guerra, sperava che qualcuno fermasse quella follia. Il secondo giorno esortò gli israeliani a limitare le proprie aspirazioni espansionistiche e solo allora, secondo questo racconto dei fatti, Israele lanciò un’operazione più estesa.
Ci sono essenzialmente due problemi in questa narrazione: come si coniugherebbe l’assalto all’aeronautica giordana con l’invio di un messaggio di riconciliazione? E poi, se anche il primo giorno Israele fosse stato ancora titubante su come agire nei confronti della Giordania, sembrerebbe invece chiaro, in questa versione, che il secondo giorno non aveva in realtà alcuna intenzione di darle tregua. Come ha giustamente notato Norman Finkelstein, se si voleva distruggere ciò che restava dell’esercito giordano e mantenere dei rapporti pacifici con l’unico paese arabo vicino ad Israele sarebbe bastata una breve operazione in Cisgiordania, senza occuparla. Dopo aver esaminato le fonti giordane, lo storico israeliano Moshe Shemesh ha concluso che già con l’attacco di Israele alla cittadina palestinese di Samu, nel novembre 1966, volto a sconfiggere la guerriglia palestinese, l’alto comando giordano si era definitivamente convinto dell’intenzione israeliana di occupare la Cisgiordania. I militari giordani non si sbagliavano.
Ciò non accadde, come temuto, nel 1966, ma un anno dopo. L’intera società israeliana si stava già galvanizzando intorno al progetto messianico di “liberare” i luoghi santi dell’ebraismo, con Gerusalemme come gioiello della nuova corona del Grande Israele. Sia i sionisti (di sinistra e di destra), che i sostenitori di Israele in Occidente, furono coinvolti e ipnotizzati da questa isteria collettiva. Inoltre, non vi era alcuna intenzione concreta di lasciare la Cisgiordania e la Striscia di Gaza dopo averle occupate: infatti non accadde. Tutto questo rappresenta l’ennesima prova della responsabilità israeliana del deterioramento dei rapporti con gli Stati confinanti e nell’escalation fino alla crisi del maggio 1967, che sfociò in una guerra a tutti gli effetti.
Quanto sia stata importante questa congiuntura storica per Israele è visibile dal modo in cui il governo ha resistito alle forti pressioni internazionali che chiedevano il ritiro da tutti i Territori occupati nel 1967, come richiesto nella famosa risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU emanata poco dopo la fine della guerra. Come probabilmente la maggior parte dei lettori già saprà, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza è più vincolante di una risoluzione dell’Assemblea generale, e questa è stata una delle poche risoluzioni di condanna delle azioni di Israele a cui gli Stati Uniti non hanno opposto il veto.
Solo in tempi recenti abbiamo avuto accesso ai verbali di una riunione del governo israeliano nei giorni immediatamente successivi all’occupazione. Si trattava del tredicesimo governo israeliano, con una composizione decisamente rilevante ai fini dell’argomentazione portata avanti in questo articolo; un governo di unità nazionale come non se ne erano e non se ne sarebbero più visti in Israele, all’interno del quale era rappresentata ogni sfumatura dello spettro politico sionista ed ebraico. Escluso il Partito comunista, ogni altro partito aveva un rappresentante nel governo, da sinistra a destra: c’erano i partiti socialisti come il Mapam, quelli di destra come lo Herut di Menachem Begin, i liberali e i partiti religiosi. La sensazione che si ha dalla lettura dei verbali è che i Ministri sapessero di rappresentare un ampio spettro di consensi nella società israeliana, una convinzione ulteriormente rafforzata dall’euforia religiosa che travolse Israele dopo la trionfante “guerra lampo” durata solo sei giorni. In questo contesto, possiamo comprendere al meglio le decisioni prese da tali Ministri nell’immediato dopo-guerra.
Inoltre, molti di questi politici aspettavano questo momento dal 1948. Mi spingerei ancora oltre e direi che l’acquisizione della Cisgiordania in particolar modo, con i suoi antichi siti biblici, era un obiettivo sionista anche prima del 1948 ed è perfettamente coerente con la logica dell’intero progetto sionista. Questa logica può essere riassunta come il desiderio di impadronirsi della maggior parte del territorio possibile includendo il minor numero possibile di palestinesi. Il consenso, l’euforia e il contesto storico spiegano perché nessuno dei successivi governi israeliani si sia mai discostato dalle decisioni prese da questi Ministri.
La prima decisione fu quella di dichiarare che Israele non poteva esistere senza la Cisgiordania. Metodi diretti e indiretti per controllare la regioni vennero proposti dal Ministro dell’Agricoltura, Yigal Allon, quando questi distinse tra aree in cui si potevano costruire insediamenti e aree densamente popolate da palestinesi, che dovevano essere governate indirettamente. Dopo pochi anni, Allon cambiò idea sul metodo del governo indiretto. All’inizio sperava che i giordani sarebbero stati tentati di aiutare Israele a governare parti della Cisgiordania (probabilmente, anche se questo non è mai stato precisato, mantenendo la cittadinanza e le leggi giordane nelle “aree arabe” della Cisgiordania). Tuttavia, la risposta giordana in merito fu piuttosto tiepida, spingendolo a considerare invece l’auto-governo palestinese in quelle aree come il modo migliore per andare avanti mantenendo lo status quo.
La seconda decisione fu che gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza non sarebbero stati incorporati nello Stato di Israele come cittadini. Ciò non includeva i palestinesi che vivevano in quella che all’epoca Israele considerava “l’area della Grande Gerusalemme”. La definizione dell’area, e di chi tra i suoi abitanti avesse diritto alla cittadinanza israeliana, cambiava ogni qualvolta questo spazio cresceva di dimensioni. Più grande diventava la Grande Gerusalemme, maggiore era il numero di palestinesi che ne facevano parte. Oggi ci sono circa 200.000 palestinesi all’interno di quella che viene definita “l’area della Grande Gerusalemme”. Per evitare che tutti fossero considerati cittadini israeliani, alcuni quartieri a maggioranza araba della città furono dichiarate località della Cisgiordania. Al governo era chiaro che negare la cittadinanza da un lato e non consentire l’indipendenza dall’altro avrebbe condannato gli abitanti della Cisgiordania e della Striscia di Gaza ad una vita senza diritti umani e civili fondamentali.
La domanda che seguì era quindi per quanto tempo l’esercito israeliano avrebbe occupato le aree palestinesi. Sembra che, per la maggior parte dei Ministri, la risposta fosse, ed è tuttora, per molto tempo. Ad esempio, Moshe Dayan (il Ministro della Difesa) in un’occasione accennò vagamente ad un periodo di cinquant’anni. Siamo ora nel cinquantesimo anno dell’occupazione.
La terza decisione riguardava il processo di pace. Come accennato in precedenza, la comunità internazionale si aspettava che Israele restituisse i territori che aveva occupato in cambio della pace. Il governo israeliano era disposto a negoziare con l’Egitto sul futuro della penisola del Sinai e con la Siria sulle alture del Golan, ma non sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza. In una breve conferenza stampa del 1967, il Primo Ministro dell’epoca, Levi Eshkol, lo disse in maniera esplicita. Ben presto, i suoi colleghi capirono che dichiarazioni pubbliche di questo tipo erano controproducenti, per usare un eufemismo. Pertanto, questa posizione strategica non fu mai più riconosciuta esplicitamente in pubblico. Quello che abbiamo sono chiare dichiarazioni di alcuni individui, il più importante tra i quali è Dan Bavli, che faceva parte della squadra di alti funzionari incaricati di elaborare strategie da attuare in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. In retrospettiva, Bavli riferisce che la riluttanza a negoziare, specialmente sulla Cisgiordania, caratterizzò la politica israeliana dell’epoca (e aggiungerei: da allora fino ad oggi). Bavli ha descritto questa politica come «un supplemento al bellicismo e alla miopia» che ha sostituito qualsiasi ricerca di una soluzione: «I vari governi israeliani hanno parlato molto di pace, ma hanno fatto ben poco per raggiungerla». Quello che gli israeliani hanno inventato in quell’occasione e dopo è ciò che Noam Chomsky ha chiamato una «farsa completa». Hanno capito che parlare di pace non significava escludere la possibilità di agire in maniera concreta con politiche sul campo del tutto contrarie all’idea stessa di pace.
I lettori potrebbero chiedersi, giustamente, se all’epoca non esistesse un’area pacifista o una posizione sionista liberale che cercasse veramente la pace. In effetti, c’era e forse c’è ancora oggi. Tuttavia, fin dall’inizio, questi movimenti sono rimasti marginali, potendo contare sull’appoggio di una piccola porzione dell’elettorato. La maggior parte delle decisioni in Israele viene presa da un nucleo centrale di politici, generali e strateghi che stabilisce la linea politica, indipendentemente dai dibattiti pubblici. Inoltre, l’unico modo per giudicare la strategia israeliana, almeno col senno di poi, non è attraverso il discorso dei responsabili politici dello Stato, ma attraverso le loro azioni sul campo. Ad esempio, le dichiarazioni politiche del governo di unità del 1967, seppur diverse sia da quelle delle amministrazioni laburiste che guidarono Israele fino al 1977, che da quelle della direzione del Likud che ha governato il paese ad intermittenza fino ad oggi (con l’eccezione dei mandati di Sharon e Olmert, espressione dell’ormai estinto partito Kadima nel primo decennio del XXI secolo), hanno poi portato a risultati simili. Le scelte concrete di ciascun esecutivo, a prescindere dal colore politico, infatti, sono sempre state le stesse, rimanendo fedeli alle tre decisioni strategiche che hanno costituito il dogma sionista nell’Israele post 1967.
L’azione più significativa sul campo è stata senza dubbio la costruzione di insediamenti ebraici in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Il governo ha inizialmente diretto questi insediamenti nelle aree palestinesi meno densamente popolate della Cisgiordania (dal 1968) e di Gaza (dal 1969). Tuttavia, come appare dall’agghiacciante descrizione contenuta nel brillante libro di Idith Zertal e Akiva Eldar, The lords of the land, ministri e personalità politiche si arresero senza porre particolari resistenze alle pressioni del movimento messianico dei coloni Gush Emunim, e nemmeno allo stanziamento di coloni ebrei nel cuore di alcuni quartieri palestinesi.
Un altro modo per giudicare quali siano state le reali intenzioni israeliane dal 1967 è guardare queste politiche dal punto di vista delle vittime: i palestinesi. Dopo l’occupazione, il nuovo governo ha confinato i palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza in un limbo incontrovertibile. Non erano né rifugiati, né cittadini: erano, e sono tuttora, abitanti senza cittadinanza. Erano detenuti, e per molti aspetti lo sono ancora, di un’enorme prigione in cui non hanno diritti civili e umani, né la possibilità di agire sul loro futuro. Il mondo tollera questa situazione perché Israele sostiene – e l’affermazione non è mai stata contestata, se non di recente – che questa sia una situazione temporanea, da mantenersi solo fino alla comparsa di un interlocutore palestinese veramente disposto a dialogare per la pace. Non sorprende che un tale partner non sia mai stato trovato. Nel momento in cui scriviamo Israele tiene ancora sotto custodia una terza generazione di palestinesi, con vari mezzi e metodi, e descrive queste mega-prigioni come realtà temporanee che cambieranno una volta sopraggiunta la pace in Israele e Palestina.
Che cosa possono fare i palestinesi? Il messaggio israeliano è molto chiaro: se accettano gli espropri di terra, le severe restrizioni di movimento e la dura burocrazia dell’occupazione allora possono trarre qualche beneficio che può riguardare il diritto di lavorare in Israele, di rivendicare una certa autonomia e, dal 1993, anche il diritto di chiamare “Stato” alcune di queste regioni autonome. Tuttavia, se scelgono la via della resistenza, come hanno fatto a più riprese, affronteranno tutta la forza dell’esercito israeliano. L’attivista palestinese Mazin Qumsiyeh ha contato quattordici di queste rivolte che hanno tentato di sfuggire alla mega-detenzione, tutte represse in maniera brutale e, nel caso di Gaza, persino genocida.
Quindi, possiamo capire come l’acquisizione della Cisgiordania e della Striscia di Gaza rappresenti il completamento di un progetto iniziato nel 1948. A quel tempo, il movimento sionista aveva conquistato l’80% delle Palestina, nel 1967 ha semplicemente completato questa acquisizione. La paura demografica che ossessionava Ben Gurion – un Israele più grande senza una maggioranza ebraica – è stata cinicamente risolta rinchiudendo la popolazione dei Territori occupati in una prigione di non cittadinanza. Questo non è solo un resoconto storico; per molti versi è ancora la realtà odierna.
Di Ilan Pappé