«Dalla parte del diavolo». Filosofia per una rivoluzione nazionalista. Di Ernst Jünger
Pubblicato nel maggio 1926 sulla rivista tedesca Standarte, il seguente scritto – seppur breve – si propone di mettere a nudo l’essenza della filosofia nazionalistica tedesca, mostrandone gli obiettivi e, soprattutto, lo spirito combattentistico, le cui radici affondano in quella “volontà di potenza” di nietzschiana memoria, che soltanto i soldati dell’epoca – tedeschi e non tedeschi – seppero personificare. Buona lettura!
Con il titolo d’onore di nazionalisti non intendiamo solo prendere le distanze dal gruppo più agguerrito di coloro per i quali questa parola è per eccellenza la più maledetta, bensì dai pacifici borghesi in generale. Un movimento che intende combattere con i mezzi della guerra per i valori della vita e che a tal fine si schiera dalla parte del diavolo – che quei mezzi siano approvati o meno dalla morale comune – è affidato a guerrieri, a uomini valenti e davvero animati dal sangue, che sposano la causa con slancio e con amore. Non si tratta certo di quei bottegai e fabbricanti di marzapane con cui un’epoca del servizio militare obbligatorio per tutti ha annacquato l’esercito, bensì di uomini che sono pericolosi perché il pericolo è per loro un piacere.
Né certo si tratta di tipi dall’indole accomodante, che reputano salvo lo Stato quando si può portare per le strade un’uniforme da generali o quando vi si possono sventolare bandiere nere, bianche e rosse, e ai quali sembra che, con il crollo del trono, la storia universale abbia perduto il suo senso. Proprio così, se i rappresentanti della quiete, dell’ordine e della pazienza cui il liberalismo dovette pagare le pensioni per il trasporto dell’inesauribile materia prima della propria attività – se costoro scendessero in campo come combattenti del nazionalismo, sarebbe in tutti i casi garantito il patrimonio della Repubblica di novembre. Non sarebbe necessario alcuna legge ausiliaria, e con reciproco disdegno fra conservatori e democratici, il liberalismo dovrebbe dirsi soddisfatto dell’esigenza di movimento, se non dovesse sperare in qualche sporadico approvvigionamento di sangue fornito dai comunisti.
Non si può, però, contare troppo a lungo su tale ingenuità. Con sorprendente chiarezza si profila in quest’epoca la possibilità di una rivoluzione nazionale e si presenta quindi al liberalismo il pericolo di vedersi d’un colpo derubato del grosso e apparentemente definitivo bottino del 1918, e precisamente per mezzo di un gesto di rinnovata illegalità. Lo stesso nazionalismo si stupisce di questa possibilità, che sarebbe stata impensabile senza i precedenti che la favoriscono: senza la guerra, il tracollo e il rapporto di forze che ne è derivato. I suoi fautori, cioè i nazionalisti, erano talmente abituati al legame della loro volontà con un grandioso apparato tradizionale che, con la scomparsa di quell’apparato, anche la loro forza di volontà sembrò andare perduta. Il nazionalismo non ha infatti rimosso tutto questo così come ci si toglie un’uniforme, ma impiegò lungo tempo per superare anche interiormente il complesso di forme di un antico Stato: molto tempo dopo che esse smisero di appartenere al mondo reale. Al suo primo, ancora poco chiaro insorgere a Monaco, il nazionalismo si trovava nel mezzo di questo processo. Man mano che procedeva, però, si destavano sentimento del tutto nuovi. La volontà di potenza non si vide più vincolata, né obbligata, bensì del tutto libera: tanto libera quanto la volontà tedesca non è forse mai stata.
Si presenta così al nazionalismo una situazione assolutamente chiara. L’edificio formale del passato è compiuto. La sua cura può essere affidata a piccoli borghesi da una parte e alla scena del mondo dall’altra. Il primo – e ovvio – dovere del nazionalismo è quello di volgere le spalle a questo campo di battaglia poggiante su un piano subordinato, senza risentimento di sorta. Il suo compito è piuttosto quella di allestire con ogni mezzo la battaglia contro l’edificio attuale, che è esattamente quello del 1919, cui si aggiungono poche concessioni di facciata a beneficio dei piccoli borghesi. Non dovrà restarne una sola pietra.
Aver reso il nazionalismo capace di affrontare questo compito è l’autentico senso della rivoluzione del 1918. Grazie ad essa, non si è solo infranto il timore che i tedeschi provano di fronte a qualsiasi rivoluzione, ma si è anche sgomberata la strada da tutte quelle pietre che avrebbero potuto opporre ostacoli ad una volontà nazionalistica illuminata. Dare a quella strada la forma di un percorso assolutamente rivoluzionario è inevitabile, non solo per assestare al liberalismo il colpo mortale rovesciandone tutte le sciocchezze legali, bensì inevitabile anche per forgiare la stessa volontà nazionalistica. Il nazionalista non deve neanche intravedere una possibilità diversa da questa. Egli ha il sacro dovere di donare alla Germania la prima vera rivoluzione: vale a dire quella spinta da idee capaci di aprire nuove strade senza scrupoli.
«Rivoluzione, rivoluzione!». È quanto deve essere incessantemente predicato, astiosamente, sistematicamente, spietatamente possa pure questa predica durare dieci anni. Ancora pochi hanno riconosciuto questa esigenza nella sua grande nettezza, ed è ancora in piena fioritura la chiacchera sentimentale della fratellanza e di unione con tutte le possibili e le impossibili forme di spirito. Sulla forca o in parlamento: ovunque vi sia posto. In tutto il mondo finito non esiste alcuna possibilità di unione fraterna tra gli opposti: non vi è che la lotta. La rivoluzione nazionalistica non sa che farsene di chi predica tranquillità e ordine. Ha bisogno di chi annuncia: «Il Signore scenderà su di voi con la durezza della spada». Dovrà liberare il nome della rivoluzione da quel ridicolo che in Germania le sta attaccato da quasi cento anni. Nella Grande guerra si è formato un nuovo, pericoloso tipo umano: conduciamolo all’azione!
Perciò, al lavoro, camerati! Cerchiamo di rafforzare il nostro influsso nelle associazioni dei combattenti, perché rivoluzionarle è una primaria necessità. Meno agio, meno membri, più attività! Preparazione centrale! Suvvia, al lavoro! Basta con le pigre lusinghe della tranquillità economica. Non siamo i mandanti della classe lavoratrice. I sindacati combattenti nazionalisti vanno trasformati e centralizzati. Alla loro guida succederanno lavoratori di stampo nazionalistico. Sulle barricate nazionaliste saranno in grado di realizzare obiettivi più grandi di quelli che in cinquant’anni il marxismo è stato capace di conseguire. Qual è la situazione nelle università, nei movimenti giovanili e in tutte le altre sedi che ci interessano? Che cos’é una cellula germinale? In che modo si dà il consenso ad uno Stato? Con la collaborazione e con l’opposizione. In che modo lo si rinnega? Negandosi ad esso, affamandolo, costruendo uno Stato nello Stato, del tutto autonomo: dalle idee cui si ispira fino agli strumenti di potere che lo sorreggono. Come si dà il consenso alla nazione tedesca? Riconoscendola nella sola maniera in cui si può riconoscere qualcosa: essendo cioè nazionalisti.
Essere nazionalisti significa voler morire in guerra per la Germania, significa levare la bandiera della rivoluzione per una Germania più grande e più bella. Questo è l’obiettivo degno della gioventù più valente e più focosa di questo paese.
Di Ernst Jünger
Oh, finalmente… Meglio tardi che mai! Scritto interessante, che però dovrebbe essere ampliato da un approfondimento più vasto ed esauriente. Ma nell’insieme Junger fa certamente comprendere il vero sentimento che animò il nazionalismo germanico. Attendiamo altri documenti.
“Non si tratta certo di quei bottegai e fabbricanti di marzapane con cui un’epoca del servizio militare obbligatorio per tutti ha annacquato l’esercito, bensì di uomini che sono pericolosi perché il pericolo è per loro un piacere.” Come sempre E. Junger rimane lo scrittore e saggista più illuminante che io abbia mai letto!