La “dottrina del sangue di Sion” e l’apartheid. Alle origini del suprematismo ebraico
Contrariamente a quanto si possa pensare oggi, l’ebraismo è permeato da una violenta corrente ultra-razzista e sciovinista che, non ammettendo alcuna diversità etnica o religiosa, individua nel sangue l’elemento più importante della religione ebraica
Il filosofo Julius Evola, in un articolo pubblicato sulla rivista Lo Stato (maggio 1939), definì la religione ebraica una «dottrina della doppia verità», in quanto nasconderebbe al proprio interno, sin dalle sue origini, una “duplicità” ben radicata e inscindibile dallo stesso ebraismo, che, come ricorda il filosofo, predica per i non-ebrei il «vangelo della democrazia, dell’eguaglianza, della parità dei diritti, dell’antirazzismo, dell’internazionalismo», mentre «riserva per sé stesso tutt’altre verità», come «il più rigoroso esclusivismo razzista e nazionalista».
Il primo aspetto di questa “duplicità ebraica”- spiega Evola – ha come obiettivo quello di «spianare le vie ad Israele, di propiziare un ambiente disarticolato e livellato, ove la “libertà” e l’eguaglianza dei diritti serviranno solo come mezzi per svolgere indisturbatamente un’azione volta all’egemonia e al dominio del “popolo eletto”», mentre il secondo aspetto – strettamente legato al sionismo e alla supremazia di Israele – ha lo scopo di «rafforzare e preservare la razza ebraica», considerata dagli ebrei non solo la più intelligente, ma anche – come vedremo – la più pura.
Ed è proprio quest’ultimo aspetto della duplicità ebraica – approfondito in parte anche da Henry Ford nell’opera L’ebreo internazionale – che ci interessa maggiormente, poiché rappresenta una caratteristica dell’ebraismo ancora poco trattata e sconosciuta ai più, la quale risulta difficilmente conciliabile con l’immagine collettiva dell’ebreo cosmopolita, progressista e tollerante della diaspora. Essa si potrebbe definire “dottrina del sangue“.
Il sangue di Sion
La profonda convinzione riguardante la purezza del sangue (o “purezza razziale”) degli ebrei è strettamente legata al concetto di “popolo eletto”. Lo storico revisionista Gian Pio Mattogno, autore di numerose opere riguardanti il problema ebraico, ha infatti spiegato che «gli israeliti sono cari a Dio proprio perché fu data loro la Torah, il dono più prezioso che servì alla creazione del mondo». Con il dono della Torah, che rappresenta «il patto fra Jahvè e Israele», il popolo ebraico diviene «il figlio primogenito di Jahvè», il «popolo “santo“, “eletto“, separato da tutti gli altri popoli e superiore a tutte le nazioni del mondo».
Le conseguenze di questo «patto», prosegue Mattogno, sono rappresentate da quattro caratteristiche tipiche del popolo ebraico, le quali – forse a causa della moderna political correctness, che confonde la realtà e altera le idee – vengono oggi raramente comprese o percepite nel mondo occidentale. Esse sono:
1) un rigido esclusivismo etnico-religioso;
2) un’arrogante e smisurata protervia;
3) un odio viscerale contro tutti i gojim (non ebrei), ritenuti idolatri, impuri e malvagi;
4) una pervicace e fanatica volontà di dominio universale.
Tali caratteristiche – molto più accentuate fra i membri dei movimenti sionisti e noachidi – vanno a formare quella che Leon Stuart Levi, ex capo della B’nai B’rith e fanatico sionista, avrebbe definito la dottrina del sangue di Sion.
«Non basta professare la religione ebraica [per dichiararsi ebreo], ma bisogna essere discendenti diretti di un popolo [ossia quello ebraico], che nei tempi antichi ebbe il suo Governo e il suo territorio fino alla seconda distruzione del suo Stato», ha dichiarato Leon Stuart Levi. «Questo avvenimento tolse agli ebrei terra e Stato e li disperse sulla faccia della terra, ma non per questo distrusse l’idea di nazione e di razza che costituiva la base della loro nazionalità e della loro religione. Chi, dunque, oserebbe affermare che gli ebrei non sono una razza? Il sangue è la base e il simbolo dell’idea di razza e nessun popolo al mondo può reclamare con tanto diritto la purezza e l’uniformità della sua razza come il popolo ebraico».
Dello stesso parere è lo studioso Antonino Romeo che, riflettendo sull’adesione all’ebraismo, ha dichiarato: «Essendo una nazione-religione, i fattori per cui vi si appartiene [all’ebraismo] sono due: a) il primo, fondamentale e radicale, è quello del sangue e della stirpe; chiunque realizza questa condizione è israelita, anche se è ateo, anche se è passato ad altra religione, poiché il giudaismo di sangue non può essere estinto dall’apostasia religiosa; b) il secondo è solo un complemento del primo: per vivere nella comunità occorre la circoncisione».
A conferma di ciò, durante una chiacchierata fra il professore ebreo Rachel Z. Feldman e un leader del movimento noachide, quest’ultimo disse: «Sei molto fortunato perché sei bianco e i bianchi sono i governanti della terra. Ma sei anche ebreo. Sei molto dotato perché hai il sangue del popolo eletto, di Abramo e di Isacco».
Ciò che caratterizza l’adesione all’ebraismo, dunque, non è la fede, la fedeltà a Dio o l’accettazione di certi principi spirituali (come in qualsiasi altra religione), ma è il sangue: solo chi possiede il sangue di Abramo e discende dalla sua nobile stirpe può essere ebreo! Il fanatico Leon Stuart Levi, ispirandosi probabilmente alle parole del precursore del sionismo, Moses Hess, secondo le quali il popolo ebraico avrebbe «mantenuto la sua purezza attraverso i secoli», arrivò addirittura ad asserire che «la parola “ebreo” deve essere interpretata più in senso biologico che teologico». Dunque, in senso razziale!
«In quanto a numero, gli ebrei in duemila anni sono rimasti quasi gli stessi», ha dichiarato Leon Stuart Levi. «Essi non cercarono accoliti per la loro religione. Si sono appropriati delle arti, delle lettere e della civiltà di molte generazioni, ma si sono sempre mantenuti liberi dalle mescolanze di sangue. Essi hanno infiltrato il loro sangue in molti altri popoli, ma non hanno mai ammesso per sè il sangue di altre genti».
A tal proposito, anche il sionista americano Louis Brandeis – noto per il suo supporto alla creazione dello Stato di Israele – ha rilasciato dichiarazioni analoghe: «Sostenere che gli ebrei non sono una razza assolutamente pura, non annulla il concetto di nazionalità. Nei tre millenni del nostro sviluppo storico è naturale che sangue estraneo si sia mescolato col nostro. I matrimoni con non ebrei hanno avuto l’unico risultato di staccare molti ebrei dalla comunità religiosa, ma non di aumentarne il numero. Per questa ragione la proporzione di sangue estraneo nel giudaismo risulta insignificante. Probabilmente nessuna razza europea è così pura come la nostra».
Ne discende che, come disse Morris Cohen, gli ebrei «accettano l’ideologia razziale degli antisemiti, ma ne traggono una conclusione differente. La razza pura o superiore, anziché essere quella teutonica, è quella ebraica». Non fu forse l’ebreo sessantottino Lenni Brenner, autore del celebre Zionism in the age of the dictators (1983), a definire il sionismo «una curiosa propaggine dell’antisemitismo razziale»? Non fu Leon Stuart Levi ad ammettere: «Mi sembra bene che gli ebrei evitino il matrimonio coi non ebrei e viceversa, per la stessa ragione per la quale si evita il matrimonio con infermi, tisici, scrofolosi o negri»? Non fu il filosofo talmudista Mosè Maimònide, considerato in Israele alla stregua di un santo, ad asserire che «i negri non sono uomini»?
Gerarchia etnica
A tutela di questa purezza del sangue di matrice “abramitica”, gli ebrei hanno creato nel tempo la cosiddetta dottrina noachide, «una nuova forma di relazioni coloniali e di ideologia razziale mediante la quale i rabbini [israeliani e della diaspora] stanno forgiando una nuova fede», subordinata al giudaismo, «i cui credenti adorano il popolo ebraico e lo Stato di Israele, senza però appartenere a nessuno dei due».
Secondo tale dottrina – ha spiegato il professor Feldman – l’ebraismo non sarebbe altro che «una categoria etno-nazionale razzializzata riservata principalmente a coloro che sono “ebrei di sangue“», i quali – contrariamente ai non ebrei – «possiedono una santità interiore che li avvicina a un livello divino». Stando alla dottrina noachide, infatti, «l’ebreo ha cinque livelli di anima», mentre il non ebreo «ha solo tre livelli e rimane a un livello animalesco», del tutto subordinato e inferiore all’ebreo. Egli – a causa della sua natura impura, subumana – non è «in grado di raggiungere il livello degli ebrei», ma può comunque «imparare a migliorarsi attraverso i Sette comandamenti», ossia le Sette Leggi di Noè, divenendo appunto noachide.
«Proprio come gli ebrei sono tenuti a seguire la Legge mosaica e osservare tutti i 613 comandamenti presenti nella Torah, i non ebrei sono obbligati ad osservare le Sette Leggi originali di Noè», ha decretato Maimonide. «Un non ebreo che rispetta queste leggi sarà considerato un “gentile retto” e avrà un posto nel “mondo a venire“».
Anche il pastore Emanuel Mirenda, rappresentante italiano del gruppo messianico Ahavat Ammio e promotore della dottrina noachide, ha rilasciato dichiarazioni significative: «Il compito di un ebreo è andare per tutto il mondo e far conoscere ai non ebrei (ai gojim, a quelli delle nazioni e agli stranieri), le leggi noachidi. Un ebreo non ti predica la Torah [la quale è riservata soltanto agli ebrei]: un ebreo ti predica le Leggi noachidi, affinché ogni nazione poggi su dei principi fondamentali dettati da questi Sette Precetti».
Di conseguenza, il professor Feldman, facendo riferimento alla dottrina noachide, la quale non fa mistero di riconoscere la «posizione superiore» degli ebrei nei confronti dei non ebrei, è arrivato a parlare addirittura di «gerarchia etnica». Secondo il professore, infatti, il culto noachide (ossia l’accettazione delle Sette Leggi di Noè) non sarebbe altro che «una forma di missione sionista», i cui fedeli «sono tenuti ad accettare la supremazia del giudaismo, ma non sono accettati nel popolo ebraico», poiché la loro impurità – razziale e spirituale – corromperebbe il prezioso sangue abramitico, che – come già accennato – è considerato di origine divina.
Auschwitz è qui!
A coronare questa dottrina del sangue di Sion, le cui origini – come abbiamo visto – risalgono all’alba dei tempi, nell’estate 2018 la Knesset ha emanato la legge dello Stato-Nazione, la quale stabilisce:
1) che «il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale» in Israele è «unico per il popolo ebraico»;
2) che l’ebraico è la lingua ufficiale di Israele (declassando l’arabo – lingua ampiamente parlata dagli arabi israeliani – a uno “status speciale”);
3) che «l’insediamento ebraico» (senza specificare dove) è un «valore nazionale» e che lo Stato «lavorerà per incoraggiare e promuovere la sua istituzione e il suo sviluppo».
L’allora Primo Ministro israeliano, il sionista Benjamin Netanyahu, riferendosi all’emanazione della suddetta legge, parlò di «un momento decisivo nella storia dello Stato [di Israele]», poiché tale legge, per ogni ebreo residente nella “terra promessa”, rappresenta «il principio fondamentale» dell’esistenza ebraica. Ma per i non ebrei, i quali costituiscono quasi il 20% della popolazione di Israele, «la nuova legge è stata uno schiaffo in faccia», ha dichiarato il quotidiano Vox. Poco dopo la sua emanazione, infatti, i parlamentari non ebrei «hanno strappato copie del disegno di legge e gridato “Apartheid” nell’aula della Knesset», mentre Ayman Odeh, leader del partito arabo-comunista Hadash, è arrivato ad asserire che Israele ha «approvato una legge sulla supremazia ebraica e ci ha detto che [noi non ebrei] saremo sempre cittadini di seconda classe“».
Ma, contrariamente a quanto si possa pensare, la legge dello Stato-Nazione ha fatto indignare anche qualche ebreo. Yohanan Plesner, ad esempio, che è il capo dell’Israel Democracy Institute di Gerusalemme, ha definito la nuova legge «sciovinista e divisiva», nonché un «imbarazzo inutile per Israele»; Rick Jacobs, capo dell’Union for Reform Judaism di New York, ha invece descritto il giorno dell’emanazione della legge (il 19 luglio 2018) come «un giorno triste per Israele e tutti coloro che hanno a cuore la sua democrazia e il suo futuro».
Ma le parole più pesanti sono arrivate probabilmente da Jibril Rajoub, uno dei massimi leader dell’Autorità Palestinese. «Israele è uno Stato razzista, nel senso che rifiuta il prossimo in maniera nazista», ha dichiarato il politico. «Esso è uno Stato barbaro che ha superato persino quello che fece Hitler. Ma la differenza è che Hitler ha ucciso moltissime persone in un periodo di tempo ristretto, mentre Israele sta uccidendo i non ebrei lentamente, e col sostegno occidentale. […] Auschwitz è qui, in ogni città della Palestina».
A conferma di ciò, esistono numerosi studi e rapporti che documentano in maniera seria ed esaustiva lo Stato di apartheid in vigore in Israele, anche se la maggior parte di essi – a causa della political correctness, che non ammette critiche all’ebraismo e ad Israele – passano purtroppo inosservati. Un recente dossier di Amnesty International, ad esempio, dichiara molto coraggiosamente: «Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi [cristiani e musulmani] sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire».
Radice patologica?
Alla luce di tutto ciò (e se si pensa anche alle violente prescrizioni talmudiche a danno dei non ebrei e alle rivelazioni dell’ex rabbino Neofito sull’uso del sangue cristiano nei rituali ebraici), è possibile concludere asserendo, senza alcun dubbio, che l’ebraismo rappresenta una vera e propria “dottrina del sangue“, le cui radici affondano nel concetto di purezza razziale derivante dalla convinzione teologica di essere il “popolo eletto”, discendente di Abramo e privilegiato da Dio, poiché scelto per detenere il segreto della Torah e guidare i popoli del mondo.
Non aveva forse ragione il sionista Ben Frommer, quando asseriva che «è innegabile che gli ebrei collettivamente sono malati e nevrotici»? Questa ossessione del sangue ha forse una radice patologica? Che cosa intendeva dire l’ebreo Maurice Samuel quando disse: «Noi ebrei, noi distruttori, rimarremo i distruttori per sempre… Distruggeremo per sempre perché abbiamo bisogno di un mondo tutto nostro, un mondo-Dio, che non è nella vostra natura costruire»?
Tutto ciò impone una seria e profonda riflessione, sia a livello individuale che collettivo. Come disse Wickham Steed, «nessun individuo, sia esso scrittore, politico o diplomatico, può considerarsi davvero maturo, finché non abbia trattato a fondo il problema ebraico». Latet anguis in herba.
Di Javier André Ziosi
Jibril Rajoub: «Israele è uno Stato razzista, nel senso che rifiuta il prossimo in maniera nazista», ha dichiarato il politico. «Esso è uno Stato barbaro che ha superato persino quello che fece Hitler. Ma la differenza è che Hitler ha ucciso moltissime persone in un periodo di tempo ristretto, mentre Israele sta uccidendo i non ebrei lentamente, e col sostegno occidentale. […] Auschwitz è qui, in ogni città della Palestina».
Capolavoro !
Da far leggere nelle scuole
ma quando si aprirà una nuova branca della psichiatria per “curare” sta gente divina???
basterà l’ LSD ??
Gran bel lavoro …questo dovrebbe,come scritto sopra esser fatto leggere nelle SCUOLE … la Storia per com’è e non come la vorrebbero imporre…sappiamo CHI…. Grande Lavoro Javier!
Mille grazie! Onorato.