La guerra del sangue contro l’oro. Riflessioni del soldato del Regio Esercito Gaetano La Rosa
La Rassegna di Cultura Militare di Roma, nell’ottobre del 1941, pubblicò un interessante saggio del soldato del Regio Esercito Gaetano La Rosa, concernente le origini del Secondo conflitto mondiale e i motivi per cui l’Italia e la Germania entrarono in guerra, dal titolo La guerra del sangue contro l’oro. Lo presentiamo qui, in forma integrale, per la prima volta dalla fine del conflitto.
1.
La lotta in atto tra le potenze totalitarie e le nazioni plutocratiche rappresenta l’urto violento tra le forze di due mondi decisamente opposti.
Due concezioni di vita, due ordini di morale, due principi fondamentali stanno di fronte in un cozzo mortale, dall’esito del quale dipende l’avvenire del mondo e dell’umanità. Se dovessero malauguratamente prevalere i plutocrati anglosassoni, alleati al Comunismo e alle forze oscure dell’Ebraismo internazionale, i destini del mondo resterebbero inevitabilmente ancorati per parecchi secoli a sistemi ormai del tutto sorpassati. Solo la vittoria dell’Asse, solo il pieno e assoluto trionfo dei principi propugnati dall’Italia e dalla Germania possono dare ai popoli un avvenire consono al processo evolutivo che, dai primordi sino ad oggi, contrassegna lo sforzo creativo delle masse umane.
Ma il passato tenta di arginare con ogni mezzo la travolgente marcia dell’avvenire, per impedire che una nuova etica proietti sull’umanità i suoi benefici. Non si tratta tanto di conseguire, dall’esito vittorioso di questa guerra, rettifiche o acquisizioni territoriali, quanto di cancellare dalla vita del mondo le tare di un indirizzo che non risponde più alle esigenze politiche e sociali di popoli sani e forti.
Per questo la lotta è mortalmente totalitaria, senza possibilità di compromessi; per questo la guerra che infuria in Europa rappresenta la sanguinosa fatica e il duro travaglio dei popoli che, coscienti delle loro necessità, reclamano una reale giustizia distributiva, un’adeguata valorizzazione del loro diuturno sacrificio e, più di tutto, la soppressione di ogni interesse particolaristico, affinché trionfino indirizzi nuovi, capaci di riformare tutta la prassi su cui è stata, fino ad oggi, imperniata l’esistenza dei nuclei nazionali dei paesi diseredati.
La teoria dello “spazio vitale”, il problema delle materie prime, il lavoro umano che da oggetto diviene soggetto nel campo economico, costituiscono i termini della contesa che ha condotto all’attuale conflagrazione.
Un nuovo capitolo si apre dunque nella Storia dell’umanità con la presente battaglia tra l’oro e il sangue, ad opera delle nazioni dell’Asse, paladine di un Nuovo Ordine Mondiale nel campo delle varie posizioni territoriali e nell’ambito dei valori morali.
Per quanto i popoli delle nazioni totalitarie conoscano queste sacrosante verità, per quanto essi sentano nel sangue il cocente bruciore della vasta gamma d’ingiustizie alle quali furono fatti segno da troppo lungo tempo, i vari organi statali competenti non tralasciarono mai occasione per proclamare le vere finalità per le quali l’Italia e la Germania, unitamente ai loro alleati, hanno combattuto e combattono l’immane guerra.
Particolarmente espressiva è stata, al riguardo, la sintetica proclamazione del carattere e delle finalità del presente conflitto fatta dal Duce in occasione del suo discorso alla nazione italiana nel primo anniversario dell’intervento.
Conclusa vittoriosamente la campagna di Grecia, stroncata la malafede jugoslava, cacciati ignominiosamente da Creta i superstiti nuclei inglesi, nonostante le vanterie del Primo Ministro di Sua Maestà Britannica Winston Churchill, con la conclusione della primavera dell’anno in corso calava il sipario sul dramma aperto il 28 ottobre 1940 dall’intervento italiano contro l’Ellade del generale Metaxas. La trionfale conclusione di questa campagna, che aveva determinato, negli ambienti ostili all’Italia, tante assurde calunnie, e il compimento di un anno di ostilità condotte dal nostro paese contro il primo impero del mondo, erano avvenimenti tali da indurre il Duce ad illuminare direttamente il popolo italiano sugli avvenimenti verificatisi e sulla situazione derivata dal primo anno di aspra e gloriosissima lotta.
Effettivamente, malgrado le stupide ironie apparse in Inghilterra all’epoca del nostro intervento, un anno di guerra italo-inglese ha duramente pesato sulle spalle del truculento John Bull.
Ad un anno di distanza dal Suo memoriale discorso col quale aveva annunziato all’Italia e al mondo la decisione di infrangere le catene che tenevano prigioniero il nostro paese nel suo mare e realizzare il trionfo delle aspirazioni morali e materiali del nostro popolo, il Duce poteva, con legittimo orgoglio, affermare che le mire e le aspettative italiane circa il sud-est europeo, nei riguardi dello spazio vitale dell’Italia, erano realizzate.
La cancellazione degli ingiusti trattati imposti dal precedente conflitto, l’eliminazione dalla vita ellenica degli elementi che avevano avvelenato per lungo tempo i rapporti italo-greci, la rinascita dell’antico Regno di Croazia, la riequilibrazione delle situazioni albanese e bulgara rispetto alla Grecia e alla Jugoslavia, la resurrezione del Montenegro e i nuovi successi ungheresi erano avvenimenti tali da porre l’Italia, all’alba del 10 giugno dell’anno 1940, in una situazione paragonabile soltanto a quella raggiunta da Roma dopo la Prima guerra punica, alla vigilia del ciclo delle campagne annibaliche.
In queste condizioni era naturale che la parola del Duce, dopo aver elencato i successi riportati dalle armi nazionali che avevano inchiodato importantissime aliquote di truppe imperiali inglesi in Africa, che avevano svalorizzato la possibilità mediterranee della Gran Bretagna e che, in unione ai camerati tedeschi, cooperavano al blocco totale delle isole britanniche, accennasse, per quanto sobriamente, alla posizione internazionale dell’Asse e, oltre le ben note mete italiane in rapporto al conflitto, additasse al popolo – memore e cosciente – l’essenza e le finalità di questa lotta mortale con la semplice, lineare, efficacissima frase esprimente la sua assoluta certezza di vittoria:
In questa immane battaglia fra l’oro e il sangue, l’Iddio giusto che vive nell’anima dei giovani popoli ha scelto. VINCEREMO!
2.
Effettivamente, i discorsi e le azioni del Presidente Roosevelt e dei suoi accoliti, nel corso del primo semestre del 1941, erano valsi a delineare, in tutta la loro evidente chiarezza, le vere caratteristiche e le autentiche finalità di questo conflitto.
Le potenze anglosassoni, detentrici della maggior parte delle ricchezze della terra e dei beni-base dei cicli lavorativi e produttivi indispensabili alla vita dei popoli, costituivano ormai un blocco unico di volontà e di forze, deciso a puntellare il traballante edifizio della loro supremazia mercantile, in attesa che, a questo sforzo, cooperasse anche la Russia dei sovietici attraverso l’ibrido e bestiale connubio del Supercapitalismo col Comunismo.
Mai come alla fine della primavera del 1941 il conflitto in atto aveva assunto il carattere di lotta aperta tra l’oro e il sangue, tra il capitale e le forze vive del lavoro, rappresentate dalle potenze dell’Asse.
Per quanto la teoria dell’essenza economica dei conflitti moderni, instaurata da Jakov Novikov e poi da Norman Angell, avesse fallito nelle sue ultime conclusioni, è tuttavia indubitato come antitesi di tal genere costituiscano cause atte a generare profondi squilibri tra le nazioni.
In effetti, nella genesi dell’attuale crisi ha avuto larga parte l’insostenibile situazione creata nel mondo dal formidabile problema della disponibilità delle materie prime e dal conseguente divario formatosi tra i popoli detentori e quelli che, meno favoriti dalla sorte, hanno forzatamente dovuto darsi un ordinamento e un’organizzazione di natura autarchica per evitare la loro sicura e lenta rovina.
In concomitanza, quindi, con altre cause di diversa natura, il conflitto in atto allinea nel suo intimo la portata dell’insanabile antitesi tra la concezione dell’organizzazione capitalistica e quella dell’umana trascendentale maestà del lavoro. Non bisogna formalizzare sul fatto che il problema delle materie prime è sempre esistito. La sua determinazione era, in altri tempi, di ben più modesta portata, per il limitatissimo numero dei beni indispensabili essenziali, talché molto difficilmente si verificava il caso di un paese totalmente escluso dal possesso dei mezzi indispensabili alla sua vita e alla sua produzione.
Quando il tecnicismo s’inserì in misura sempre più ampia nella funzionalità dei moderni aggregati economici e politici, quando il processo inventivo portò alla ribalta dell’interesse mondiale nuovi prodotti ottenuti con la valorizzazione di materiali mai prima di allora utilizzati, il problema dei beni che stanno alla base dei cicli lavorativi e produttivi cominciò ad assumere un aspetto di essenzialità, che non ha fatto altro che crescere col correre del tempo.
Indipendentemente da questo indirizzo, la scottante questione delle materie prime si avviò verso l’attuale acme quando, dal campo economico, cominciò a slittare insensibilmente sul piano politico.
Dal momento in cui il possesso di questi prodotti si trasformò in un mezzo di potenza e di prepotenza a disposizione delle poche nazioni fortunate, venne a delinearsi, in maniera sempre più manifesta, la possibilità di un pericoloso asservimento economico e, conseguentemente, politico, di tutte le altre alle prime.
In sostanza, il mondo non si divise soltanto in popolo abbienti e in popoli non abbienti, ma in paesi che avevano la possibilità di dilatare smisuratamente la loro potenza e in paesi costretti alla condizione di satelliti nel campo politico ed economico, con vastissimi riverberi nell’ambito dei loro problemi sociali. Si delineò così un panorama intollerabile e insostenibile, per il quale i popoli poveri, tra l’altro, erano condannati a diventare sempre più poveri, mentre i ricchi aumentavano a dismisura le loro ricchezze, di cui, in effetti, beneficiava solo un’esigua minoranza nazionale.
Di fronte a queste condizioni negative, le nazioni ricche di energie – dominate da un possente dinamismo demografico – dovettero rivolgersi verso correttivi adeguati alla situazione per evitare che la portata pratica della loro indipendenza si trasformasse in un vuoto simulacro e per porre rimedio al perturbamento sociale derivante dal suddetto stato di cose nel mondo.
Sorsero e si ampliarono così i principi di autarchia economica, espressione della naturale reazione dei popoli diseredati, decisi a non lasciarsi sopraffare dal nuovo mito dell’oro.
Certo, però, che, quando i risultati di questa pratica apparvero innegabili, allo scherno seguì, nei confronti di questi popoli, un’ostilità sempre più palese ed ostinata.
Se da un lato, nei centri del mondo capitalistico, si osservava, con crescente stupore, che le nazioni diseredate acquistavano, giorno per giorno, un più vasto grado di potenza, di cui beneficiavano, in primo luogo, le loro forze armate, aumentando il loro potenziale d’urto e sviluppando, in maniera prodigiosa, la loro capacità di resistenza, dall’altro le preoccupazioni economiche e finanziarie cominciavano ad assorbire l’attenzione delle organizzazioni affaristiche di questi paesi.
Il progressivo vincolo delle nazioni povere assoggettate alle ricche incideva poi sui loro guadagni, che minacciavano di contrarsi con progressiva sensibilità.
Indipendentemente dal lucro cessante e dal danno emergente, l’aumento della capacità lavorativa e produttiva dei paesi autarchici, accompagnato dal considerevole sviluppo del tecnicismo delle loro popolazioni, causava una somma di gravi ‘preoccupazioni, mentre il complesso dei provvedimenti sociali, promossi dai governi autoritari a favore delle classi lavoratrici, costituiva una fonte di timori di altra natura, per l’eventualità che le masse operaie dei paesi plutocratici imponessero ai ceti che le sfruttavano l’instaurazione di provvedimenti che avrebbero diminuito il largo margine di utile di cui beneficiava la ristretta cerchia degli azionisti delle grandi organizzazioni economiche.
Un vasto movimento contrario all’indirizzo tendente a cristallizzare l’aspetto e le possibilità del mondo veniva ormai a delinearsi, in maniera sempre più evidente, attraverso la progressiva caduta dei valori del mondo demo-plutocratico, ormai in deciso declino.
Di tutte le espressioni del nuovo fenomeno autarchico, quella che più preoccupava gli ambienti politici anti-totalitari era il costante aumento di potenza e di capacità di resistenza dei loro antagonisti, che, pur proclivi a dar un seguito evolutivo al raggiungimento da loro desiderato, non decampavano dalle loro idee di revisione nei riguardi della situazione politica ed economica del mondo. Gli esponenti del movimento capitalistico comprendevano pertanto come le nuove teorie attentassero alle basi del loro sistema imperniato sull’oro, la cui determinazione e importanza erano in progressiva diminuzione.
Col sorgere di un nuovo termine di paragone nel campo del valore e con la formazione di una nuova tecnica nell’ambito dei mezzi di scambio, la potenza dell’oro aveva ricevuto il colpo mortale.
Se nel concetto di valore erano venuti ad inserirsi, con obbiettivi rivoluzionari, i nuovissimi elementi della fatica, del sudore, del sacrificio delle masse lavoratrici, nell’ambito della tecnica distributiva il fattore lavoro, con la sua trascendentale portata, minacciava di scalzare il secolare dominio dell’oro.
Così, a poco a poco, il lavoro, che, per tanto tempo, era stato considerato semplice oggetto dell’economia, assurgeva a soggetto dell’economia stessa. In una parola, il lavoro, rimasto allo stato di fattore subordinato nel piano economico, era riuscito a trovarsi alla ribalta dell’interesse mondiale, rivoluzionando il quadro della preesistente situazione.
Mentre nel campo sociale delle potenze totalitarie scompariva la lotta di classe – mostruoso parto delle teorie socialistoidi e democratiche –, nel campo economico la pace tra il capitale e il lavoro permetteva il raggiungimento di una meta considerata dalle teorie liberali irraggiungibile, in quanto questa scuola definiva programmaticamente antitetici e, quindi, irreconciliabili, i due termini primordiali della vita lavorativa e produttiva delle nazioni, vale a dire il lavoro e il capitale.
Una nuova mèsse di risultati benefici per l’economia e per le possibilità dei popoli si delineava all’orizzonte dei paesi autarchici, mentre la produzione dei paesi democratici, nonostante i numerosi elementi di favore, scadeva sempre più nella sua espressione qualitativa e quantitativa.
Al disopra di ogni altro divario, si affermava l’insanabilità di due concezioni economiche e sociali. Un mondo nuovo sorgeva, mentre il vecchio perdeva sempre più terreno.
In questa situazione, la Plutocrazia ritenne che solo la forza avrebbe potuto determinare il miracolo di arrestare la progressiva caduta delle sue concezioni e il crollo del Supercapitalismo mondiale.
La guerra fatta scoppiare nel settembre 1939 dalla Gran Bretagna dovrebbe raggiungere lo scopo di imporre l’abolizione del principio autarchico, fonte di potenza e di benessere per le nazioni non adeguatamente provviste di beni naturali e correttivo del problema delle materie prime, per ripristinare la situazione precedente, per la quale l’umanità intera dovrebbe dipendere dal volere e dal prepotere delle nazioni sazie, vale a dire dall’Impero inglese, dall’Unione nordamericana e dalla Russia sovietica.
Per questo, gli ambienti demo-liberali avevano sempre risposto con dei non possumus alle eque domande italiane e germaniche per la revisione della situazione coloniale mondiale. Contemporaneamente, Londra, Parigi, Washington e Mosca cercarono con ogni mezzo, attraverso un sotterraneo lavorio politico, di mettere l’Italia fascista e la Germania nazionalsocialista in condizioni da rendere possibile una ripetizione, ai loro danni, della tattica di esaurimento così ben riuscita nella guerra del 1914-18. Senonché, per le mutate condizioni politiche dell’Europa e per le previdenze autarchiche realizzate dalle potenze dell’Asse, tale piano si è dimostrato fatalmente inconsistente.
La guerra odierna rappresenta quindi la suprema reazione al tentativo delle nazioni ricche di sopprimere i nuovi indirizzi portati alla ribalta dell’interesse mondiale dalle potenze dell’Asse per l’istaurazione di una nuova etica internazionale, per il raggiungimento di principi di giustizia distributiva adeguati al nostro tempo e per lo smantellamento di quelle posizioni egoistiche che hanno troppo lungamente reso possibile e inattaccabile il predominio corruttore della ricchezza sui valori umani in genere e su quelli del lavoro in particolare.
L’epoca degli sfruttamenti ammantati di pompose, seppur vacue, teorie di una fratellanza universale, è ormai definitivamente tramontata. Il progresso e l’avvenire dell’umanità dipendono dalla vittoria dei popoli che hanno preso le armi per il trionfo dei nuovi principi tanto osteggiati dal liberalismo soffocatore.
I popoli dell’Asse, coscienti di questa insopprimibile necessità, conoscono perfettamente gli scopi di guerra dei rispettivi governi, senza bisogno di lunghi ed elaborati discorsi. Sanno che la loro vita, quella dei loro figli e la loro sacrosanta libertà dipendono dalla loro vittoria e per questa combattono con fede e decisione.
Convinti che l’avvenire di un paese non può più essere alla mercé dell’asservimento dei magnati della finanza internazionale e dei loro esosi interessi, essi sono decisi a completare totalitariamente i risultati della lotta che i loro maggiori, nel secolo XIX, attraverso patimenti e dure battaglie, realizzarono nel campo dell’autonomia politica delle rispettive nazioni, dopo che l’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato come il concetto dell’indipendenza nazionale si svuoti di ogni effettivo contenuto se manca un minimo di autonomia economica.
I popoli della nuova Europa, in particolare quelli dell’Italia e del Terzo Reich, perfettamente consci delle loro capacità evolutive e produttive, non possono tollerare ancora oltre l’impero di un regime a base nettamente schiavista, di un mondo dominato dalla nefasta influenza di dottrine materialistiche che dividono l’umanità in privilegiati e non privilegiati, in nazioni opprimenti e in nazioni oppresse, con mezzi e sistemi decisamente più feroci di quelli in uso in epoche buie; in popoli condannati a lavorare e a vivere stentatamente per consentire a minoranze di altri paesi di condurre una vita di agi superlativi e di realizzare una preminenza non adeguatamente basata su tangibili valori individuali e collettivi.
Il concetto di potenza delle nazioni si è oggi evoluto verso orizzonti nuovi.
Esso si orienta ormai verso ideali di assoluta equità per tutti i popoli in base alla loro effettiva capacità e al loro apporto nel campo del lavoro, obbligo che compete all’intera umanità per la sua diuturna faticosa evoluzione.
Per questo, in Italia, in Germania e nei paesi aderenti al Nuovo Ordine Mondiale, sono oggi tutti convinti che la guerra sostenuta dalle potenze dell’Asse è dominata dai principi ideali espressi dalle loro dottrine, dal cui trionfo dipende l’avvenire del mondo e della civiltà.
Di fronte a questa sacrosanta verità, gli otto punti del convegno[1] Churchill-Roosevelt a bordo del Potomac diventano un’inutile rievocazione dei principi falsi e bugiardi, della cui effettiva portata il mondo ha già fatto una ben amara esperienza, in quanto essi tenderebbero a confermare ai popoli anglosassoni, da secoli fedeli adoratori del dio Oro, un’intollerabile supremazia su tutti gli altri.
Ma il mondo, che vuole raggiungere una vera libertà, non permetterà che tale indirizzo prevalga.
Da questa scienza e coscienza è pervenuta nell’anima delle nazioni dell’Asse la sensazione insuperabile della necessità che l’immane battaglia fra l’oro e il sangue si concluda con la vittoria dell’Italia e della Germania.
Per questo, le teorie caldeggiate dall’Italia del Duce e dalla Germania del Führer, esponenti della giustizia e della libertà sulle rovine di un mondo ormai in dissoluzione, prevarranno inevitabilmente su quelle dei loro avversari, che, asserviti alle forze oscurantiste del male, non potranno arrestare il fatale corso di un rinnovamento mondiale, ormai saldamente inserito nel processo dell’elevazione umana.
Di Gaetano La Rosa
Si riescono a trovare i pdf di questa rassegna di cultura militare?
Assolutamente significativo. Una riflessione del genere non deve scappare inosservata per poter meglio comprendere quanto sia attuale la battaglia che ognuno che abbia buon senso per la propria esistenza e per i propri valori tradizionali può essere di vitale importanza per sopravvivere e ripristinare la Tradizione degli avi.