«Camminando sull’Isola dei morti». L’arte e il segreto della “percezione assoluta”

Esiste una condizione ineffabile, stendhaliana, una sorta di sintonizzazione artistica che permette di entrare letteralmente nell’opera d’arte: essa assimila la totalità dei sensi e, se vissuta con il totale coinvolgimento che si conviene a chi desidera fruire completamente dell’estetica artistica, è in grado di aprire una porta su un universo poco conosciuto, un nuovo modo di osservare e conoscere, una metodologia alternativa di cui il fisico teorico Wolfgang Pauli e lo psicologo C. G. Jung si occuparono in vari periodi di tempo tra gli anni ’30 e ’50 del secolo precedente.


Sincronicità

Essi misero a confronto psicologia e fisica quantistica nel tentativo di trovare una soluzione a un enigma affascinante, il déjà vu e le cosiddette “coincidenze significative”, giungendo a elaborare il concetto di “sincronicità”.

Tralasciando l’oggetto del loro studio che meriterebbe senz’altro una indagine più che approfondita, attingiamo al lavoro di Jung e Pauli perché mette in risalto un aspetto poco considerato e certamente poco noto ai più: l’approccio “olistico” – un aggettivo che a questo punto diviene parte dello stesso campo semantico di “quantistico”. In pratica, la straordinaria capacità e la curiosità dei due scienziati portò alla comprensione della possibilità di esistenza di differenti livelli di realtà, coesistenti e sincroni, ma in spazi diversi, manifestantisi spesso con eventi di coincidenza.

Quando nel 1952 uscì il volume Naturerklärung und Psyche i due studiosi proposero con esso due personali visioni che tentavano, con il concetto di sincronicità, di dimostrare l’esistenza (come teorizzato dalla meccanica quantistica di cui Pauli era uno dei padri) di una matrice di universi multilivello, interagenti con la nostra realtà a livello percepibile e di cui è possibile scorgere in alcuni eventi o in momenti particolari la connessione e la trama.


Una nuova metodologia

La metodologia che utilizzavano è positivamente applicabile all’approccio all’opera d’arte, andando oltre ciò che si vede e utilizzando non tanto la pura astrazione o una personale interpretazione atta ad estrapolare un “semantema” artistico, quanto un’insolita piattaforma di osservazione, più elevata di quella ordinaria, utilizzando percezione sensoriale, conoscenza tecnica relativa all’opera e alla personalità dell’artista, mescolata alla visione quantistica dell’universo multilivello. Si tratta di un osservatorio speciale, privilegiato, che rivela molto più di ciò che normalmente si vede.

Un suggerimento in tal senso mi venne qualche tempo fa durante una visita al Musée d’Orsay, a Parigi, quando di fronte a un meraviglioso autoritratto di Van Gogh ricevetti un’intensissima sensazione, non emotiva, ma potentemente fisica, simile a una lancia che partendo dai blu-azzurri intensi del quadro pareva raggiungere direttamente il mio cuore. Ebbi in quel frangente la netta sensazione che l’arte in sé racchiudesse qualcosa di più di una semplice immagine pittorica e fosse in qualche modo collegata all’universo che ci circonda.

In effetti, il lavoro di Pauli e Jung ci ha mostrato come il nostro universo, ciò che vediamo, è assimilabile effettivamente a un’opera d’arte di eccezionale vastità e portata, sia da un punto di vista scientifico che estetico. Ma ciò che si vede è una parte infinitesimale di ciò che esiste, e soprattutto la fisica dei quanti ci ha mostrato un cosmo pulsante, di cui la vibrazione, o meglio l’onda, è la costituente fondamentale. Le radiazioni cosmiche sono onde a differenti frequenze, come lo sono la luce, i colori e, in ultima analisi, le emozioni. La materia non è altro che vibrazione solida, a livello atomico e subatomico e, più in profondità, a livello quantistico.

Tutta questa stupefacente metafora vibrante che esiste ed è percepibile nell’universo grazie alle interazioni con la materia visibile, è connessa, nei suoi vari strati, a moltissimi livelli sia di materia che di pensiero, e ci rende consapevoli che tutto nella natura in cui siamo immersi è interconnesso e raggiungibile, in modalità così complesse ma allo stesso tempo fruibili, da lasciare senza fiato.

Applicando questa sorta di metafora-matrice semantica, cioè la consapevolezza che esistiamo in un universo multi-forma e multi-onda, posti di fronte all’immagine, diviene possibile la “percezione assoluta”, ovvero ammirare un quadro non solo da un punto di vista estetico e filosofico, ma anche da un punto di osservazione geografico. Se i colori sono onde a diversa frequenza e ampiezza, così lo sono i pensieri e le emozioni; se un colore influisce sulle emozioni percepite da una persona che osserva un quadro, siamo di fronte a un processo di feedback artistico che rivela la possibilità effettiva dell’approccio quantistico.

Si sta suggerendo un modo insolito per gustare l’arte, ma che riesce ad elevarne la percezione, poiché coinvolge più sensi e rende consapevoli di dimensioni ulteriori e interconnesse tra loro. È un modo nuovo e interessante di porsi di fronte all’opera, simile a un’elaborazione tridimensionale computerizzata in grado di rivelare cosa c’è dietro sulla base di studi prospettici: un processo molto simile a quello che compie il cervello normalmente durante la fase di interpretazione del significato dell’opera, su un piano differente, più astratto e teorico. Come una TAC dell’opera d’arte.

Così, di fronte ad alcuni quadri particolari che ben si prestano a tale indagine, come L’Isola dei Morti (Die Toteninsel) del pittore svizzero Arnold Böcklin (1827-1901), diviene possibile non solo sentire la tristezza dell’anima che giunge alla sua definitiva destinazione, a causa dell’onda-colore che attraverso gli occhi giunge al cervello provocando l’onda-pensiero, ma è anche possibile riceverne una visione a tre dimensioni e oltre, e cioè esplorare l’Isola, salire sulla sua superficie, o addirittura girarvi intorno con la barca e osservare così ciò che l’artista non desidera o non può mostrare. Questa decisa impressione di multi-spazialità che L’Isola dei Morti emana è una delle ragioni del suo immenso successo, che spinse l’autore a dipingerne cinque versioni per compiacere altrettanti compratori.


La percezione assoluta

L’Isola dei Morti è una delle opere in grado di aprire questa porta sull’universo quantistico multilivello esplorato da Pauli e Jung e rivelare il ponte interpretativo su cui camminare: un ponte che, illuminato da questa luce coerente e rivelatrice, si manifesta e conduce fisicamente all’interno dell’opera.

Questo modo di sentire un’opera, in qualunque forma essa si manifesti, può giustamente definirsi “olistico”, dal greco όλος, cioè “totalità”. Stiamo parlando di una “percezione assoluta”, totale, che tiene conto non solo di ciò che si vede, ma anche di ciò che non si vede, la cui informazione è presente a livello prospettico, anche se non visibile. Un po’ come un’immagine fotografica in formato digitale RAW; esso è più pesante (nel senso digitale del termine) di una normale immagine JPEG, perché contiene molte più informazioni, che un esperto può filtrare ed estrapolare con un software specifico. Grazie a questo sistema un’immagine normalissima può rivelare elementi normalmente invisibili.  Non è errato un paragone del genere, in quanto i computer e la tecnologia informatica sono costituiti sul modello funzionale umano, in particolare del cervello.

Secondo questo modo molto interessante di assaporare l’arte, essa non si può spiegare esclusivamente con le singoli parti di un’opera, ma va colta nell’insieme, oltre che nelle singole unità costituenti. Ciò genera una percezione multilivello che ingloba piani interpretativi legati a campi di studio completamente differenti (eppure, a ben vedere, molto vicini, a tratti intersecantisi e inframmezzati, come una matrice o una maglia di tessuto), dalla psicologia alla fisica quantistica, dalla simbologia alla semiotica.

L’essenza dell’interpretazione non giace quindi più nell’ammirazione, ermeneutica ed esegesi insieme, di una forma fisica, ma nella percezione e nella assimilazione di punti di vista diversi dall’ordinario sull’opera, che, come fari puntati da varie direzioni su una statua, possono mettere in luce settori normalmente oscuri.  Ecco quindi che può avere luogo la “percezione assoluta” dell’arte, ovvero partendo dalla conoscenza biografica dell’autore dell’opera e dalla conoscenza dei suoi principi artistici fondamentali, essa astrae il pensiero ed eleva la percezione, esattamente come osservando una scena  geografica elevandosi in altezza.

È un po’ il senso del Labirinto nella simbologia ermetica: nella consuetudine del quotidiano, siamo immersi e vaghiamo in un labirinto che non permette, se non a pochi e per cause fortuite, di trovare l’uscita. È allora necessario un percorso alternativo, in cui non si è più all’interno, ma si cammina sulle pareti del labirinto; un punto di vista elevato che, come la visione quantistica, occupa lo stesso tempo, ma in spazi/livelli diversi. Da questo punto di vista è possibile scorgere immediatamente l’uscita dalle trappole della vita e afferrarne la vera essenza: una metodologia interpretativa che è possibile utilizzare con successo nella fruizione dell’opera d’arte.


L’Isola dei morti

Ho potuto fare esperienza diretta di tale approccio alcuni giorni fa: mi trovavo a Berlino e non potevo in nessun modo, viste le tematiche di cui mi occupo, mancare di ammirare alla Alte Nationalgalerie il quadro preferito di Hitler, un quadro che esercitò su di lui, e su un’intera generazione di appassionati di pittura, un fascino insolito. Esso assunse nel tempo tonalità e sfumature cangianti dall’intrigante al morboso, in cui l’atmosfera sospesa nel tempo e nello spazio recava con sé le brume e le rugiade di Germania, il più gelido ghiaccio delle montagne del Nord mescolato al freddo abbraccio della morte e il più intenso bisogno esplorativo nel confronti della morte, dell’oblio. Questa necessità di conoscere, come un sacro fuoco di conoscenza, è in grado di sciogliere il gelo del dubbio e dell’oscurità, capace di illuminare, seppur debolmente, la realtà, alla ricerca delle risposte alle domande più inquietanti che l’uomo posso porsi.

La potenza espressiva, oscura e morbosa di Böcklin era certamente in piena armonia con l’ideologia wagneriana, che costituiva parte considerevole del sostrato ideologico nazista. Le umide nebbie che avvolgono le foreste in cui si muovono Sigfrido, Brunilde, Hagen, il respiro dei draghi, la tumida potenza dei drammi germanici, la mistica grandiosità della saga dei Nibelunghi, la grandezza tragica degli Asi e dei Vani e lo scontro finale di Ragnarøkkr per la rigenerazione del mondo: tutto questo sembra ritrovarsi ne L’Isola dei morti, che può essere percepita come l’essenza della cultura pittorica tedesca di fine 1800.

Si è parlato di “peso onirico” dell’Isola, in quanto essa ha molto a che fare con la psicoanalisi, pur precorrendola, ed è in grado di offrire una veduta d’insieme della Terra dell’Ombra junghiana: i moti interiori che coinvolgono l’inconscio, il sogno e la parte oscura della personalità umana. Per tutti i suoi misteriosi richiami, l’opera affascinò personaggi del calibro di Georges Clemenceau, De Chirico, D’Annunzio, Dalì. Nemmeno Hitler poté sottrarsi al suo ineffabile fascino e nel 1936 ne acquistò la versione che è ora possibile ammirare alla galleria nazionale di Berlino.

Come prima accennato, Böcklin dipinse cinque differenti versioni dell’Isola in sei anni, dal 1880 al 1886. In tutte le versioni, che differiscono per piccoli particolari, è presente l’Isola attorniata da rocce e in mezzo ad un mare – o un fiume – d’acqua scura. Il protagonista attivo all’interno del fotogramma, che pare annullare il tempo, è una figura vestita di bianco che accompagna una bara, anch’essa bianca, verso l’Isola. Un personaggio di spalle, un timoniere, conduce la barca verso la sua meta. L’Isola è una sorta di “palco dell’inconscio”, un anfiteatro naturale in grado di mostrare l’identità oscura della morte e dell’individuo, con alte rocce che la delimitano, mentre al suo interno si ergono cipressi, tradizionale simbolo associato ai cimiteri.

Durante la sua lunga permanenza a Firenze, l’artista aveva il suo studio in prossimità del Cimitero degli Inglesi, dove lavorò alle prime tre versioni, e sembra possibile che egli abbia tratto spunto da esso per i cipressi e l’architettura interna, mentre l’Isola è di incerta attribuzione; secondo la moglie egli si ispirò a una fotografia di Ischia, ma è comunque probabile che sia un collage di luoghi che ispirarono il marito.

L’Isola dei morti non è un luogo effettivo, ma una metafora vitale. Parla della morte, ma è un’opera che vive di vita propria, che esprime, ammalia, sospira una verità che non si può dire ad alta voce. Ci sono aperture nelle rocce laterali che si rivelano essere sepolcri. Tutto è ipnosi onirica, silenzio e sussurri. Questo è «un quadro per sognare», dichiarò la seconda committente di Böcklin, Marie Berna, che era rimasta affascinata dal primo quadro della serie (ora al Kunstmuseum di Basilea) a tal punto che gliene commissionò un altro, chiedendogli qualcosa che la facesse «sognare».

L’artista ne dipinse quindi una seconda versione, aggiungendo la figura vestita di bianco e la bara. Böcklin le scrisse il 29 giugno 1880: «Mercoledì scorso ho terminato l’Isola tombale. Lei vi si immergerà sognando, in questo oscuro mondo di ombre, fino a credere di aver sentito il soffio lieve che increspa la superficie del mare, fino a voler distruggere il solenne silenzio con una parola detta ad alta voce».

Questa seconda versione è esposta al Metropolitan Museum di New York. Grazie a Die Toteninsel, l’artista acquisì velocemente fama europea e gli fu così commissionata la terza versione; da questo quadro in poi l’artista aggiunse le iniziali AR in una delle camere sepolcrali nella roccia.

Hitler acquistò nel 1933 la terza versione, che divenne il suo quadro preferito, soprattutto per la tematica centrale della morte, che riveste un ruolo predominante anche nella visione hitleriana e wagneriana. Dopo la requisizione da parte dei russi nel 1945 e la successiva restituzione alla Germania, questo quadro fu esposto alla Alte Nationalgalerie di Berlino.

Böcklin ricevette altri ordini; il quarto dipinto della serie, che era esposto alla Berliner Bank, andò perduto durante il Secondo conflitto mondiale, mentre il quinto si trova al Museum der bildenden Künste di Lipsia. Curiosamente Arnold Böcklin, due anni dopo l’ultima versione, decise di dipingere L’Isola dei vivi (esposta al Kunstmuseum di Basilea), tesa a controbilanciare l’oscuro messaggio del suo capolavoro precedente e a lasciarne uno più positivo.


Camminando sull’Isola dei morti

Tornando a quel pomeriggio alla pinacoteca nazionale di Berlino, per la seconda volta, dopo l’esperienza parigina, acquisii consapevolezza dell’esistenza di un ponte fisico, che collega la metafora alla sua rappresentazione fisica, l’idea di un pittore al suo quadro, una metafora che si estende a qualunque campo artistico ed interpretativo. Posto di fronte all’Isola dei Morti, ne ricevetti una intensa emozione insieme a un ugualmente potente messaggio geografico, come se da esso scaturissero precise coordinate e dati che il cervello stava interpretando. Mi resi conto quindi dell’avvenire dell’approccio olistico, e afferrai in pieno la visione quantistica multilivello di Pauli e Jung.

Ciò che avvenne, in quella sala semideserta, mentre mia moglie seguiva altri autori nella sala adiacente, ha a che fare con quegli incroci o crocevia della vita che Jung chiamava “coincidenze significative”, eventi di déjà vu o comunque momenti assoluti in cui vari piani di esistenza, o multi-matrici quantistiche, giungono a toccarsi, a conoscersi e subito dopo ad allontanarsi, lasciando nel fruitore un insolito sentimento di qualcosa di straordinario appena avvenuto, una finestra su un nuovo universo multilivello.

In questo momento/memento, un lampo, un attimo di luce illumina una sorta di ponte fisico attraverso il quale è possibile camminare, annullando il tempo, come Böcklin voleva, utilizzando differenti piani di spazio sincroni e casualmente coincidenti, in un fantastico evento di sincronicità.

Ora psicanalisi, arte, storia, tecnica, scienza e arte coincidevano, ora divenivano improvvisamente visibili le trame e le maglie del tessuto del reale, che collegano la metafora al suo modello reale e alla idea di essa.

Si tratta di un’esperienza ineffabile, stendhaliana, dalle conseguenze così intense e affascinanti da far girare la testa; ho così acquisto consapevolezza (“compreso” non è il termine più adatto) dell’esistenza di un “ponte”, che collega gli elementi costitutivi della materia, del pensiero e dell’esistere. Le onde (poiché tutto è onda e vibrazione) e quindi il pensiero dell’artista e di chi osserva, il colore, l’emozione, la materia della tela: tutto non è altro che vibrazione solida o vibrazione pulsante.

E lo stesso è per il tempo; per questo i tempi dei verbi che utilizzo in questa descrizione sono al presente e al passato insieme. Potrei usare anche il futuro se non fosse per l’impossibilità e l’inadeguatezza di questo tempo per una narrazione di questo genere. Passato, futuro e presente si toccano, si toccarono e si toccheranno ancora, e diventano per qualche attimo eterno una sola cosa.

In questo momento assoluto, passato, presente e futuro – come queste onde di interferenza di varia natura – coincidono, come pure gli universi in cui le azioni sono state, saranno e sono compiute. Parliamo di spazi differenti, ma sincroni con un tempo che, come ne La Persistenza della Memoria di Dalì, viene annullato; spazi che vengono a contatto e permettono ora di camminare su quel ponte giungendo all’Isola. In pratica, è una sintonia e sincronia totale, che permette la ricezione delle onde del passato, del pensiero dell’artista, le sue emozioni, i suoi colori e il pensiero tramutatosi nella materia solida del quadro.

È la stessa tecnica pittorica che comunica questa sinestesia totale: L’Isola dei Morti è mito classico, è romanticismo nordico, è natura mediterranea toscana, è filosofia greca, è sepolcri etruschi che divengono tutto e uno allo stesso tempo perché confluiscono in esso idee del passato, del presente e del futuro, in una comunicazione istantanea del senso dell’arte.

Camminando nel silenzio del ponte riuscivo a sentire il rumore lieve delle increspature dell’acqua su cui la barca si stava muovendo – una vasta distesa d’acqua scura che divide la Vita e la Morte, la più vivida immagine della separazione. Ho visto la barca giungere all’Isola e i due occupanti consapevoli compiere uno strano lavoro con la bara dell’unico passeggero inconscio. Non ho avuto tempo di parlare con loro, poiché stavo giungendo anch’io sull’Isola, ma in una zona differente. Questa è un’isola «per sognare», ma non è un sogno: è una manifestazione fisica dell’inconscio.

E io stavo camminando sulle rocce bagnate dall’acqua, percependo il lieve rumore ritmico di essa. Tutto qui è pace, ma una pace che non dona gioia, anzi, una mesta, melanconica tristezza. Stavo esplorando il luogo del “problema” finale, il luogo dove il mistero della morte può essere rivelato. È così: il luogo dove la Morte racconta i suoi segreti e narra la sua storia, ma bisogna entrare all’interno delle tombe sepolcrali, afferrare una torcia presente all’interno e illuminare la verità. Quest’Isola è l’allegoria del Regno dei Morti, ma di morto ve n’è uno solo, quello nella bara, e le due figure che stanno compiendo il lavoro non sono morte, o forse non sanno di esserlo, ma tutto qui indica un luogo di riposo riservato ai morti, simboli che richiamano a un cimitero, dai cipressi agli altri minuscoli elementi presenti nel luogo.

Un’atmosfera solenne, ipnotica, la stessa fredda sensazione che si prova all’interno di grandi e antiche chiese, in cui il freddo dei marmi e delle colonne unito al forte aroma di cera e incenso incute sensazioni affatto piacevoli.

Sentivo il freddo del crepuscolo; il sole era già tramontato e mentre spostavo i rami dei cipressi ne percepivo il profumo. Mi addentrai così all’interno dell’Isola, dietro agli alberi, e potei osservare qualcosa che giaceva al centro prospettico dell’area, qualcosa che non avrei dovuto vedere. L’isola era molto più ampia di quello che sembrava, poiché dietro ai cipressi lo spazio si estendeva all’infinito. E vi era qualcosa che giaceva nascosto. Qualcosa che non mi fu permesso raccontare.

Un’immagine, una realtà in frantumi, frammenti di specchio che riflettevano qualcosa di grande e potente, ma erano frammenti di specchio… E qualcosa, una visione in grado di spaventare chiunque.

Sapevo di non poter rimanere lì e tornai indietro: osservando i due personaggi che trascinavano tristemente la bara sulle rocce, sulla strada in salita verso i sepolcri laterali scavati nelle rocce, salii sulla barca e cominciai lentamente a remare, per osservare cosa giaceva dietro l’isola; uscii dalla zona di luce flebile, per entrare nella penombra e infine nell’ombra. E di nuovo potei vedere, o sentire – era la stessa cosa – che dietro all’Isola non vi era tenebra come poteva sembrare, ma che la prospettiva si allargava all’infinito, come un riflesso in uno specchio in grado di moltiplicare molte volte le dimensioni di un’area. E anche lì esisteva qualcosa, qualcosa che non avrei dovuto vedere, qualcosa che normalmente esisteva in un altro universo, casualmente a contatto con il mio e con quello delle figure che trascinavano il morto.

È così: tutto è un attimo e dura per sempre, tutto è qui ed è tutto allo stesso tempo, un tempo che perde il suo significato usuale per divenire differente e molto più complesso. Nel freddo dell’Isola, nell’Isola dei Morti, ho potuto esplorare, gustare i profumi della terra e dei cipressi, percepire la brezza del vento sulla barca, osservare il processo della morte, il posizionamento di una bara nel suo posto definito di quel cosmo onirico e reale insieme. Ma sentivo che il tempo era terminato, pur essendo infinito, e riportai così la barca al suo posto, dirigendomi verso il ponte.

Osservando i due personaggi ridiscendere dal sepolcro per riprendere la loro via sulla barca, mi fu suggerito (non so bene da chi o da cosa, si trattava di percezioni chiare, ma non voci) che il morto era stato depositato temporaneamente in un area precisa, e in quella sinestesia di suoni, odori, tempi e spazi diversi e uguali, ebbi la risposta alla domanda e ricevetti la consapevolezza che tutto quel luogo era qualcosa di simile a un “deposito di dati” in una regione della memoria molto particolare, che a suo tempo sarebbe stata riutilizzata. Entrando nello stato alfa della mente dell’artista vi fu così la possibilità di sintonizzarsi sulle sue lunghezze d’onda, ricevendone informazioni multilivello.

Dietro ai cipressi, dietro l’Isola, vi era la soluzione a questo processo millenario; nel momento in cui le onde del pensiero dell’artista venivano a coincidere con le mie ne potei avere consapevolezza. Poi, istantaneamente come si era creato, l’attimo assoluto ebbe fine, e tutto tornò alla normalità. Quanto poteva essere durato, una trentina di minuti? Nella realtà del tempo, si trattava di un atto contemplativo durato meno di un battito di ciglia.

Ma sono sicuro di quello che ho visto, di ciò che ho sentito. Si è trattato di un evento di sincronicità, come era accaduto tempo addietro a Parigi di fronte a un Van Gogh. E ora ne ricevevo la conferma. Questo approccio olistico, quantistico e multidimensionale all’arte vale la pena di essere sperimentato, poiché è in grado di illuminare verità e significati altrimenti destinati a rimanere per sempre nell’oblio.

Attendo con ansia un nuovo momento di percezione assoluta; ci sono altre opere d’arte, e non solo quadri, in grado di attivarla, e non solo nelle arti dell’uomo. Nel frattempo, sono lieto di aver potuto suggerire una fruizione così totale, discreta, ammaliante e significativa.

Chiunque vorrà sperimentarla ne trarrà giovamento; l’orizzonte da esplorare si rivela molto più vasto e interconnesso di quanto potessimo immaginare, e i messaggi che si ricevono sono intensi e importanti.

Certo, è il mio personalissimo approccio all’arte, diverso da quello di altri. Ma è reale ed efficace se utilizzato insieme ai consueti metodi d’indagine, poiché apre una porta su un universo straordinariamente interconnesso. Il fatto è che fra gli individui, le menti, le opere d’arte e l’universo intero esistono interazioni stupefacenti.

E naturalmente, se l’universo è un’opera d’arte, riflette la personalità dell’artista che l’ha generato.


Di Pierluigi Tombetti

3 commenti

  • Riflessione molto profonda e – oserei dire – ‘psichedelica’. Complimenti a Tombetti, che ancora una volta stupisce tutti con uno scritto al confine tra arte e follia… È la ‘Percezione Assoluta’…

  • Per comprendere la profondità della percezione assoluta di cui parla Tombetti è necessario rileggere il testo almeno tre o quattro volte, se non di più… Seguire Tombetti non è sempre facile, ma se si entra letteralmente nel testo, senza fretta e distrazioni, si possono aprire porte meravigliose tanto per l’anima quanto per l’arte, arrivando infine all’essenza stessa della percezione assoluta. Chi dice che un quadro è solo un quadro non ha capito nulla dell’arte e, forse, nemmeno di sé stesso.

    • Condivido tutto quello che hai detto. E penso anche che tutti gli artisti della storia fossero in possesso di questa ‘percezione assoluta’ capace di farli entrare direttamente nella loro opera..

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