«Un soldato deve rispettare gli ordini». Storia di Hiroo Onoda, l’ultimo soldato fantasma

«L’ordine di spiare i soldati americani e sabotarli è revocato. Deponi le armi, sei dispensato dal giuramento di combattere fino alla morte». La scoperta della resa del Giappone lasciò sgomento e inizialmente incredulo il tenente Hiroo Onoda. Quando si rese conto che era vero, scoppiò in un pianto a dirotto. Ma non era il 1945, bensì il 1974. A impartirgli l’ordine, direttamente nella giungla filippina, sull’isola di Lubang (cento chilometri al largo di Manila), era arrivato dal Giappone il suo diretto superiore, diventato nel frattempo un libraio, il maggiore Yoshimi Taniguchi. Non c’era nessun altro a cui egli voleva credere. «Improvvisamente tutto divenne scuro», ha raccontato nella sua autobiografia Onoda, che all’epoca aveva 52 anni. «Dentro di me si scatenò una tempesta. Mi sono sentito uno sciocco per essere stato così teso e cauto sulla strada per venire qui. Peggio ancora, cosa avevo fatto in tutti questi anni? Gradualmente la tempesta si acquietava, e per la prima volta compresi davvero: i miei trent’anni da guerrigliero si erano bruscamente interrotti. Questa era la fine. Davvero non avrei più usato questo fucile, che avevo pulito e curato come un bambino per tutti questi anni? Davvero la guerra è cessata trent’anni fa? E allora per che cosa sono morti Shimada e Kozuka? Non sarebbe stato meglio se io fossi morti con loro?».

Con indosso la sua antica divisa rattoppata si consegnò a quelli che erano venuti a prenderlo. Poi chiese di potersi presentare al presidente delle Filippine, Ferdinando Marcos, per formalizzare la resa consegnandoli la sua spada da ufficiale. Il presidente lo accolse con tutti gli onori e gli restituì la spada. Inoltre, gli concesse il perdono per la trentina di uccisioni e il centinaio di ferimenti che Onoda aveva compiuto durante i suoi anni di guerriglia.

L’ufficiale giapponese ringraziò, si inchinò profondamente davanti alla bandiera del suo paese, e andò via. Nulla fino a quel giorno del 1974 l’aveva convinto che la sua nazione avesse davvero accettato l’onta della resa. Ci avevano provato in tanti, ma ogni volta lui aveva pensato che si trattasse solo di propaganda nemica. Non aveva dato retta al discorso per radio dell’Imperatore Hirohito, che chiedeva di «sopportare l’insopportabile». Non aveva mai sentito la sua voce prima di allora e gli sembrò priva di senso. Non aveva creduto neanche ai volantini con cui nel 1952 era stata “bombardata” l’isola di Lubang, dove lui e i suoi compagni erano nascosti: pieni di errori, dovevano senz’altro essere frutto di un’operazione di intelligence americana. Vane furono le spedizioni inviate fino al 1959 da Tokyo per cercarlo, che anzi lo avevano spinto solo a nascondersi sempre più in profondità. Nel 1972 e nel 1973 gli giunse notizia che dal Giappone erano partiti alcuni suoi familiari per cercare di convincerlo a lasciare la vita alla macchia, ma lui si persuase che si doveva trattare del tentativo di un regime fantoccio gestito dagli americani. Insomma, non c’era verso di recuperare l’ultimo dei soldati fantasmi, dato più volte addirittura per morto fino a quando una sua nuova azione di guerriglia forniva una puntuale smentita.


Ordini perentori

L’impresa impossibile di ritrovarlo riuscì, invece, a un viaggiatore solitario, Norio Suzuki. Egli non pretese di convincerlo a lasciare la sua vita di guerrigliero, ma ebbe l’idea di rintracciare il superiore di Onoda. Il motivo? Nella mentalità nipponica, era l’unico che aveva l’autorità di annullare gli ordini che gli aveva impartito nel 1944. Ordini molto chiari, che Onoda, uscito dalla scuola per ufficiali, prese alla lettera: «Mantenere le posizioni. Aspettare i rinforzi. Non arrendersi. Categoricamente proibito togliersi la vita», gli aveva detto il maggiore affidandogli la missione di guerriglia sull’isola di Lubang. «Può richiedere tre anni, o cinque, ma in qualunque momento avverrà, noi torneremo indietro per voi. Fino allora, finché avrai un soldato, dovrai continuare a guidarlo. Se è il caso, vivete di noci di cocco».

Il giovane tenente aveva mantenuto la guida di una pattuglia di quattro uomini, dopo che il 28 febbraio 1945 l’isola di Lubang era stata riconquistata dagli statunitensi. «Ogni soldato giapponese era pronto a tutto, compreso il suicidio, ma mi era stato ordinato di combattere una guerra usando la guerriglia e di non morire. Se non fossi riuscito a obbedire, me ne sarei vergognato», spiegò Onoda in una intervista del 2010 alla Abc.

Rimasti all’oscuro della fine della guerra, gli uomini di Onoda non cedettero. Però, nel 1949, uno di loro, Yuichi Akatsu, si sfilò dal gruppo e dopo un po’ si arrese. Furono i suoi racconti ad accendere l’attenzione sugli ultimi guerriglieri giapponesi che continuavano a resistere, rubando cibo e vestiti ai locali e vivendo dei frutti della foresta. Nel 1954, in uno scontro a fuoco con una pattuglia filippina, morì anche il caporale Shoichi Shimada; una sorte che toccò, nel 1972, anche a Kozuka Kinshichi, l’ultimo dei suoi compagni, ormai cinquantenne.


L’etica del samurai

Quella di Onoda è una storia incredibile, metafora della vita e dell’onore giapponese. «Un soldato non deve mai pensare alle cose, deve rispettare gli ordini», disse nel 1995. «Oggi, non considero quei trent’anni una perdita di tempo». Fare il proprio dovere, per un bravo guerriero giapponese, è l’essenza della vita. Il problema di Onoda non è mai stato giustificare la sua tenacia nel continuare la guerra, ma solo spiegare perché semmai non era caduto in combattimento o perché non l’aveva fatta finita.

«Questa mentalità giapponese non è solo marziale. Valeva nei confronti dell’Imperatore come oggi vale nei confronti dell’azienda», spiega Piero Crociani, esperto di Storia militare. «Alla sua base c’è il Bushido, il codice d’onore, la cultura dei samurai, la stessa che nel periodo finale della guerra generò i kamikaze. Una filosofia che prevede il suicidio rituale in caso di sconfitta».

Dopo la resa, Onoda fu riportato in Giappone, dove lo accolsero con tutti gli onori tributati a un eroe. Ma il paese che ritrovava non era più quello che aveva lasciato, con case in carta e legno e un Dio come Imperatore. Di fronte ai grattacieli, al consumismo e alla tecnologia, Onoda preferì trasferirsi in una fattoria in una comunità di connazionali in Brasile, dove sposò un’insegnante della “cerimonia del tè”. Reso ormai famoso dalle sue peripezie, tornò infine nell’Impero del Sol Levante, dove si dedicò con successo ad organizzare corsi di sopravvivenza. Ma l’ultima vera resa è avvenuta il 16 gennaio 2014. Questa volta il nemico era davvero imbattibile. La morte l’aveva preso alle spalle: un infarto improvviso. Aveva 91 anni.


Di Osvaldo Baldacci (da: History, n.35)

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