«L’Italia che sognammo». Libertà e gerarchia nel Ventennio fascista
Il presente saggio, scritto da Bruno Guglielmetti e pubblicato sul giornale La Verità il 31 marzo 1940, configura e mette a nudo il rapporto tra libertà e gerarchia all’interno della dottrina fascista. La Redazione di Ardire ha tuttavia optato per una sua pubblicazione integrale, al fine di mettere a disposizione a studiosi e ricercatori un documento pressoché fondamentale per comprendere l’essenza del fascismo, con tutte le sue sfumature.
Molto si è scritto sul concetto di libertà, e si è anche affermato che la vera libertà, la libertà pura, sia quella di cui godono gli italiani sotto il Regime fascista.
Il Fascismo, l’etica fascista, non va e non andrà mai alla ricerca della formula perfetta o della misura esatta della libertà; il suo fine da raggiungere non è questo, ed è ben diverso. E fra i mezzi per conseguire tal fine, non è affatto necessario che sia incluso il problema, l’assillo della definizione e dell’estensione del concetto di libertà.
La libertà non è cosa materiale e concreta che si possa misurare e dosare (e non è nemmeno un’unità biologica racchiusa in norme fisse; e non è neppure un imperativo assoluto e categorico da imporre, se vuoi, anche con la forza, alle menti recalcitranti); è, invece, un’estensione degli istinti, delle attività e degli atti dell’uomo, in funzione delle contingenti condizioni ambientali in cui vive e che determinano il limite oltre il quale quegli istinti, quelle attività, quegli atti non possono trovare applicazione.
L’uomo che vive solo, in un’isola deserta, ha tutta la sua libertà, ma essa è già limitata dall’istinto di conservazione, dalla prudenza nei confronti delle forze della natura. Se giunge un altro uomo, le iniziali condizioni di libertà del primo sono già ridotte e modificate nello spazio e nel tempo dalla personalità del secondo.
Quanto detto per il singolo, vale per una ristretta comunità di individui, vale per le grandi comunità, vale per le nazioni.
La convivenza determina le limitazioni dell’attività individuale, in relazione alla necessità collettiva e all’evoluzione mentale dei soggetti, ma anche in relazione e contrasto con le ideologie e le attività delle comunità limitrofe o lontane con le quali si abbiano contatti di idee e scambi di materie.
Parlare, quindi, di libertà come concetto concreto e come aspirazione assoluta è un non senso.
I nostri maestri ci insegnarono che la libertà individuale può esercitarsi nell’ambiente concesso a ciascuno, limitato dall’ambito della libertà altrui, onde sorge la norma che fissa per tutti il campo di attività e che assume la forma di un imperativo categorico, il carattere di forza cogente.
I nostri maestri omisero allora di unire nel principio astratto di libertà, quello concettuale, ma concreto, di gerarchia (ossia la gamma insopprimibile dei valori umani spirituali e materiali), onde la perequazione e l’abbassamento di tutti allo stesso livello si rivelò difforme alla natura stessa degli uomini, in quanto i due termini non possono sussistere indipendenti l’uno dall’altro.
Anche l’uomo solo, in un’isola, subisce la “gerarchia”, la sottomissione a forze a lui superiori: quelle della natura. È una “gerarchia cosmica”, fisica, fenomenica, ma sempre si concreta in una limitazione degli impulsi, degli istinti, della volontà del singolo, che, seppur solo, non è libero.
Se l’uomo vive in comunità, la norma della convivenza si concreta in gerarchia, che applica le norme limitatrici della libertà.
Da qui, si comprende che la libertà è concepibile solo in quanto esista gerarchia.
La degradazione dei due termini, infatti, porta allo stesso risultato.
La gerarchia, quando si trasforma in tirannia, per aver troppo compreso la libertà, sfocia in rivolta. La libertà, quando si trasforma in licenza, per aver annullato la gerarchia, sbocca in rivoluzione.
L’una e l’altra, per cause opposte e per vie differenti, ricercano la stessa soluzione e tornano allo stesso principio: equilibrio fra i due termini “libertà” e “gerarchia”.
Ma è da rilevare che il sorgere, l’affermarsi e il decadere di ogni nuova forma di pensiero non avviene sopra una linea retta. In senso figurato, i punti successivi del divenire sono sulla stessa retta, ma la direzione dello sforzo progrediente si sposta in direzione obliqua ascendente, al di là della retta, per l’eccesso della forza iniziale, e, così, procede fino a che, esauritasi la spinta ascensionale, la obliqua, dal punto massimo di ascensione raggiunto, e ripiega sulla retta, ma più in alto del punto di partenza; e poi, sospinta da una nuova forza, se ne diparte in direzione contraria alla precedente, per compiere la sua ascensione e ripiegare, a sua volta, sulla retta e così via di seguito. Di modo che la retta centrale è la risultante di forze contrarie che partono ciascuna dalla degradazione della precedente.
In tal modo, per gradi, per flussi e riflussi, per potenze e resistenze, per ascensioni e decadenze, per principi e deformazioni, la linea retta sale e progredisce.
Tale è l’evoluzione del pensiero; simile, la “progressione” del concetto di libertà.
E uso l’espressione “progressione” non per asserire una verità assoluta di “elevazione”, ma per indicare solo un fatto relativo al tempo, in quanto noi consideriamo che il concetto attuale di libertà sia stato reso più completo e perfetto dall’evoluzione spirituale e sociale che noi conosciamo, mentre, ove questa mutasse per cause fisiologiche, storiche, razziali e sociali, il concetto di libertà verrebbe adeguato alle nuove forme di civiltà e di evoluzione che la collettività avrebbe acquisito in quel determinato periodo, senza, perciò, determinare, nella coscienza della collettività, un’impressione di regresso e un sentimento nostalgico del passato.
Ma, quale che sia la libertà, da essa non potrà mai dissociarsi il principio e la realtà della gerarchia, che racchiude in sé altre insopprimibili realtà: 1) l’affermarsi dei tipi e dei prodotti migliori sulla collettività; 2) il rilevarsi di soggetti che si ribelleranno alla norma comune per tendenze regressive; 3) l’affermarsi di individui che andranno oltre la norma per tendenze progressive.
La vittoria degli uni o degli altri avrà come risultato: 1) la formazione di nuove gerarchie, in funzione di garanzia del nuovo concetto di libertà; 2) la reazione in senso opposto, quando sarà esaurito il periodo iniziale e acuto della nuova forma concettuale, la cui esistenza e durata, proporzionata al periodo di evoluzione e alla capacità di selezione della nuova gerarchia, degraderà sia per deformazione e decadenza della gerarchia stessa, che per incapacità collettiva di acquisizione di nuove forme e concetti di libertà.
Di conseguenza, in tempi successivi, ciò che fu considerata libertà sarà poi violazione; ciò che fu ritenuta violazione, sarà libertà.
La storia di ogni collettività umana offre la prova di questa verità, tanto che nessuno può arrogarsi il diritto di affermare che la libertà di cui godeva, per esempio, un suddito babilonese, fosse maggiore o minore, migliore o peggiore di quella concessa ad un cittadino romano del tempo di Augusto o di un citoyen dell’odierna Repubblica francese.
Le collettività nazionali hanno quindi quella libertà che è in relazione al loro sviluppo razziale, sociale e storico in determinati periodi, distinti nelle fasi di decadenza o di ascensione.
Quando quest’ultima ha raggiunto la sua parabola più alta, le restrizioni alla libertà, che servirono come mezzo necessario per ottenere la propulsione concorde della collettività, saranno ritenute superflue dalle generazioni susseguenti che non furono sottoposte alla fatica e allo sforzo dell’ascesa.
Quando si inizia e si accelera il periodo di decadenza, le generazioni che la subiscono non avvertono che le cause di essa sono la deformazione del concetto di libertà, inteso come difetto di equilibrio tra la norma e la convivenza e come difetto di selezione nella gerarchia, onde riterranno privazione o restrizione della libertà ogni tentativo – di necessità promosso fuori dalla gerarchia – diretto ad arrestare la progressione dissolvitrice.
Quindi, eccesso di libertà e decadenza si equivalgono come termini di causa ed effetto e concorrono nello stesso ciclo.
Le comunità che costruiscono, e sono in fase di ascesa, si presentano unite e tese in uno sforzo tenace che non conosce sosta e riposo. Gli individui che le formano non sognano libertà, sognano potenza, e non sono adescati dal desiderio di non operare, non si soffermano per criticare e non li attrae il miraggio di riposare sull’incompiuto, così come non si arresta chi si costruisce una casa fino a che non l’ha elevata, coperta e chiusa.
La collettività che costruisce segue senza discutere gli ordini del Genio, che la costruzione ideò e perfezionò; lavora, crede e combatte con fede e dedizione, qualunque sia lo sforzo richiesto, le privazioni imposte, perché la fede include l’imperativo assoluto di gerarchia.
Il gregario che non ha fede non costruisce, ma si arresta nello sforzo, viene sorpassato ed escluso; resta fuori dai ranghi come tronco inutile e avulso, dannoso a sé stesso e alla comunità. Egli deve essere eliminato perché non intralci la marcia degli altri.
E la marcia continua in ranghi serrati fino alla meta, e non c’è altra libertà che di seguirla. Non c’è libertà di sosta o di mutamento di direzione. La comunità ha compreso che, per ascendere in potenza l’estensione del termine “libertà”, deve cedere al termine “gerarchia”. E non teme che questa degradi in tirannia perché lo sforzo è collettivo, non individuale o di pochi.
Le comunità che hanno costruito sostano. Questa sosta è già inizio della fase di discesa: discesa lentissima, quasi inavvertita, ma comunque ostacolata e trattenuta dalla superstite coscienza dello sforzo compiuto e dall’istinto di conservazione del bene raggiunto.
Ma questa è la fase in cui i due termini “libertà” e “gerarchia” iniziano il loro nuovo equilibrio, in cui si concede l’ingresso alle ideologie deformanti il concetti di libertà e che premono, in senso opposto, a quello di gerarchia, onde riducono la misura di questa a favore dell’altra attraverso sforzi e resistenze, progressi e regressi, fino a che le generazioni che non furono sottoposte allo sforzo costruttivo dimenticano, dubitano e non credono più nel dogma che la potenza e l’ascesa sono in funzione della limitazione delle libertà collettive e del freno agli impulsi incomposti di ideologie e di dilettantismi ribellistici.
Quando i valori e la forza della gerarchia sono stati compressi e travolti dall’eccesso dell’altro elemento componente l’unità, allora si inizia la fase accelerata di decadenza e discesa.
La comunità non solo non costruisce più, ma non sa conservare neppure gli utili e i frutti del patrimonio ideale collettivo. Dopo aver disperso i primi, incide nel secondo e lo consuma fino all’esaurimento. Lo sforzo costruttivo e conservativo delle passate generazioni è dimenticato, spesso inapprezzato, quasi sempre deriso e deprecato. I vincoli collettivi si rallentano, si distaccano, si spezzano. La norma che ha regolato la vita della comunità perde vigore perché intaccata nella sua essenza interiore e nella sua forma esteriore.
La gerarchia, come un fenomeno dinamico, perde d’intensità quanto acquista in estensione, perché il comando si moltiplica e si disperde, mentre l’altro componente della norma di vita collettiva, la libertà, svincolata dalla misura equilibratrice, la gerarchia, la elimina, la annulla e, infine, la rovescia insieme a sé stessa, in un nuovo crogiuolo, in cui si rifonderà con le scorie dell’altro elemento, per operare una nuova fusione.
In questo periodo, la collettività ricerca una nuova norma di vita attraverso il travaglio interno in cui sono scatenate tutte le passioni, tutti gli istinti, tutte le crudeltà, tutte le tendenze, fino a che i marosi dell’insaziato e sconfinato spirito umano si calmano, si acquietano per eliminazione, per esaurimento, per forza persuasiva e ragionante, e dal crogiuolo fumante balzerà fuori, prima di ogni altro, la nuova gerarchia, che imporrà la nuova norma alla collettività.
Da qui, possiamo concludere che “gerarchia” e “libertà” sono due termini dello stesso principio, in cui la misura dell’uno o dell’altro si sposta in funzione della fase ascendente o discendente della collettività.
Ad operare il flusso e riflusso concorrono le stesse cause, ma il moto di propulsione sarà ritardato o accelerato quanto più salda o meno salda sarà stata la costruzione nel periodo di ascesa.
E questo è compito e gloria del Capo che l’ha promossa, guidata e sorretta. Quanto più egli sarà stato vigile custode della sua fatica, quanto meno egli ne avrà abbandonato i caposaldi costruttivi ad iniziative altrui, troppo prolungate e, perciò, deformanti, tanto più salda, duratura e perfetta sarà la sua opera, tanto più vasto sarà il periodo storico in cui susseguenti generazioni non dimenticheranno lo sforzo delle precedenti, e, con esse, la gerarchia che le ha sorrette e guidate nella fase di ascesa.
Così, la libertà e la gerarchia, in egual misura, monteranno la guardia, nei secoli, alla potenza della Patria.
E questa è l’Italia che sognammo.
Quod faustum, bonum, fortunatumque sit.
Di Bruno Guglielmetti
Ciao Javier concetti importanþi ma non semplici da capire..il rapporto gerarchia e liberta e una cosa tosta…basti pensare al servizio militare..oggi non piu obbligatorio….saluto.
Molto interessante… Il giornale di Bombacci non delude mai!
Amo questo articolo! La concezione fascista della Libertà è, a dir poco, saggia e illuminante.
Sono rimasto senza fiato.. bellissime parole, grandissima sostanza e tanto amore per la Patria.