Fuga dalla Germania Est. La vera storia di Alfred Lauterbach e Horst Bock
Scritto a due mani da Claus Gaedemann e Robert Littell nel 1963, il saggio che segue concerne la leggendaria fuga di Alfred Lauterbach, pittore e scultore tedesco, dalla prigione di Brandeburgo, avvenuta nell’estate del 1954 con la complicità della guardia Horst Bock, ma è anche e soprattutto una storia di coraggio e di amicizia, di impegni presi e di lealtà, attraverso la quale è possibile gettare uno sguardo sul passato di una Germania divisa in due, stritolata dalla piovra comunista e dal suo spietato sistema oppressivo.
Al penitenziario di Brandeburgo, nella Germania dell’Est, l’incartamento del detenuto n. 1880, Alfred Lauterbach, non era certo voluminoso. Indicava soltanto che costui era stato condannato a 25 anni di reclusione per aver cospirato contro lo Stato Sovietico Tedesco.
L’incartamento non diceva però che, durante gli ultimi giorni di guerra, questo giovane pittore tedesco aveva visto morire il fratello per le torture inflittegli dai soldati sovietici. Di conseguenza, egli era entrato a far parte del movimento clandestino di resistenza, per poi venire arrestato e processato da un tribunale militare russo con un giudizio sommario e poi condannato.
Il nostro racconto comincia nel maggio 1952, e a quel tempo Lauterbach era in prigione da tre anni. Aveva la testa rasata, gli occhi inquieti e ardenti, profondamente infossati nel viso emaciato. Era dimagrato di 26 chili. Ma il peggio, per un pittore come Lauterbach, era di sapere di andar perdendo, con il disuso, l’abilità della mano e dell’occhio. La giornata gli sembrava di cento ore; sedeva solo con i suoi pensieri in una cella dove sentiva i bambini che giocavano e ridevano in un mondo libero oltre i muri di cinta, ma che egli non poteva vedere.
Un giorno furono mostrati a Lauterbach alcuni cartelloni di propaganda comunista e gli fu chiesto di farne altri simili. Sebbene odiasse il regime della Germania dell’Est, non si lasciò sfuggire l’occasione di prendere di nuovo un pennello in mano.
Un giovane agente di polizia lo accompagnò al piano superiore della prigione, in una camera lunga e stretta con un’alta finestra. Su un tavolo c’erano carta, matite, stendardi di tela e vasetti di colori. Gli fu data una dozzina di strisce di carta che recavano dattiloscritto il testo delle diciture e poi fu chiuso dentro la camera. Lauterbach spinse il tavolo sotto la finestra, vi mise sopra una sedia e vi salì per dare la sua prima occhiata alla libertà dopo tre anni. Poi si mise all’opera. Provava un tal gioia nell’osservare il colore stendersi sotto il pennello, che il tempo gli passò velocissimo; prima che se ne rendesse conto, la sua guardia era alla porta per riportarlo in cella.
Il poliziotto era insolitamente giovane per avere le stellette di sergente maggiore sulle spalline, pensò Lauterbach, guardando con più attenzione. L’uniforme blu era elegante; sotto il berretto inclinato da una parte spuntavano capelli biondi paglia; gli occhi immobili erano come due palline di vetro nella faccia impassibile dal colorito roseo come quello di un bambino. Era il vero prototipo della nuova polizia popolare addestrata dai comunisti: inesperto al massimo, ma duro come un chiodo.
La guardia, Horst Bock, era davvero giovane. Nato nel 1930, aveva conosciuto soltanto la Germania di Hitler, la guerra e il regime sovietico. A 17 anni, spinto dal padre di un suo amico che era nella polizia popolare, si era arruolato nella Volkspolizie, la Vopo. Ma l’unica opinione politica che avesse Bock era l’ingenua convinzione che il regime sovietico avesse il merito della ricostruzione post-bellica della Germania dell’Est.
Persino le dosi massicce di Marx e di Lenin che aveva ricevuto alla scuola di polizia non sembravano avergli fatto effetto. Una buona recluta sta debitamente sotto la pioggia, sia questa un diluvio di parole o di acqua. Così imparò a subirlo… e a impartirlo; divenne un esperto in dottrina comunista.
A tempo debito gli venne detto di iscriversi al partito comunista. Egli esitò, finché il padre del suo amico non gli fece notare che se non si iscriveva non poteva sperare in una promozione. «Non ci vidi nulla di male», afferma ora Bock. «Seguii la corrente».
Uscì dal suo corso come specialista. Al carcere di Brandeburgo fu assegnato alla Divisione politica, composta da tre funzionari, dove censurava i giornali della Germania dell’Est prima che fossero dati ai detenuti e curava la biblioteca per il personale del penitenziario, costituito da 300 dipendenti, ai quali dava regolarmente lezioni di storia e di ideologica comunista.
Conduceva un’ottima vita. La giovane moglie di Bock, anche lei della Vopo, con il grado di caporale, lavorava nel reparto telescriventi della prigione. Avevano due bambini, abitavano in una delle comode case per il personale vicine alla prigione, dove, di fatto, non pagavano affitto, e avevano un buon stipendio rispetto alla media della Germania dell’Est.
Anche se Bock non era un comunista convinto, era comunque un servitore dello Stato, ubbidiente, industrioso e apprezzato. Non aveva alcuna idea di cosa significasse “scegliere la libertà” o qualsiasi altra cosa che non fosse la strada tracciata innanzi a lui.
Durante le settimane che seguirono, ogni tanto Bock accompagnava allo studio il vacillante e terreo detenuto affinché assolvesse il suo compito di dipingere manifesti o riprodurre i panciuti ritratti del Presidente fantoccio Piek o del Primo Ministro Ulbricht. Scambiavano poche parole, ma si studiavano a vicenda.
Lauterbach vedeva in Bock uno strumento del potere, che temeva e odiava. Non sapeva però quanto questo strumento fosse spietato o malleabile. Perciò taceva, osservava e aspettava.
D’altra parte, Bock rimaneva sempre più colpito dal talento e dal potere di concentrazione di Lauterbach, dalla passione con la quale cercava di trarre qualcosa di buono da quelle frasi trite. Bock non riusciva a considerare Lauterbach un criminale, disse in seguito, ma piuttosto un avversario del regime, che era logico, quindi, tenere rinchiuso.
Con il passare del tempo, il ghiaccio si scioglieva impercettibilmente. Il tono con cui Bock dava gli ordini si addolcì. Ogni tanto diceva una parola di lode e qualche volta una frase scherzosa. Incuriosito da questo prigioniero, Bock ne andò a leggere la cartella. Era schematica: il processo era durato due minuti, seguito da una sentenza di cinque parole per giustificare una condanna a venticinque anni di reclusione. Bock voleva saperne di più.
Un giorno di settembre, quando Bock andò a prendere Lauterbach allo studio, gli chiese: «Per quale motivo siete in prigione?».
Impulsivamente, Lauterbach proruppe: «Sono stato bollato come delinquente perché ho combattuto contro il delitto!».
Era come se fosse stato tolto il tappo da una bottiglia: venne fuori tutto. Lauterbach raccontò innumerevoli storie di crudeli ingiustizie che tanta gente aveva subito: brava gente, il cui unico delitto era stato quello dell’indignazione e della protesta. Condanna di un terzo della vita per reati che non erano stati commessi.
Il dovere di Bock, secondo i regolamenti, sarebbe stato quello di interrompere il detenuto, accusarlo di essere un bugiardo e denunciarlo. Invece, egli ascoltò interessato. «Può darsi che sia un bugiardo», ricorda Bock di aver detto a sé stesso. «Devo scoprire se quel che dice corrisponde a verità».
Durante lo sfogo di Lauterbach, Bock andò alla porta e l’aprì per vedere se non ci fosse qualcuno ad ascoltare. Con questo gesto, per quanto allora nessuno dei due se ne rendesse conto, Bock era passato dall’altra parte: lui e Lauterbach erano dallo stesso lato della barricata.
Più tardi, nella sua cella, Lauterbach era atterrito da ciò che aveva fatto. Bock l’avrebbe denunciato, naturalmente. Ciò voleva dire qualche settimana di cella di rigore in un profondo sotterraneo, senza luce, senza letto; soltanto un tavolaccio e pane secco.
Per una settimana visse nel terrore, aspettando che cadesse la scure. Poi, una mattina Bock venne a prenderlo per accompagnarlo di sopra come se niente fosse.
Ma nella mente e nell’animo di Bock molte cose erano già avvenute.
All’epoca, nella Germania dell’Est si stavano facendo i primi passi verso un’amnistia per i prigionieri politici. Molti dei reclusi di Brandeburgo subivano interrogatori nella speranza che confessassero e implorassero clemenza al governo. Gli interrogatori preliminari erano in parte compito di Bock. Con tale scusante, egli parlò con un centinaio di detenuti e mise in luce una vergognosa serie di casi in cui medici, avvocati, insegnanti e impiegati statali erano stati condannati a 10, 15, 25 anni per “delitti” politici che erano insignificanti, gonfiati e talmente vaghi da apparire grotteschi. Lauterbach non aveva mentito.
Bock non disse nulla, ma Lauterbach avvertì il cambiamento e cominciò a sondarlo cautamente. Mostrò a Bock ritagli di giornali scelti allo scopo: «DIECIMILA PERSONE INNEGGIANO AI CAPI DEL PARTITO», diceva un titolo a grossi caratteri, e Bock, che era stato all’adunata, sapeva che solamente poche centinaia di persone si erano presentate.
Un giorno, Lauterbach si scagliò con veemenza contro Ulbricht, il Primo Ministro fantoccio. Bock lasciò che il prigioniero si sfogasse. Era turbato dall’eloquenza di Lauterbach, dalle verità inconfutabili che proclamava. Alla fine disse: «Potete esser contento di aver detto tutto questo a me e non a qualcun altro».
Bock, ormai, si era compromesso. E allora cominciò ad aiutare i detenuti.
C’erano, per esempio, i bigliettini che i reclusi si passavano clandestinamente. Quando una guardia ne intercettava uno e lo portava a Bock, questi si consultava con Lauterbach. Se Lauterbach diceva che il detenuto era “in regola”, non accadeva niente. Ancora più pericoloso fu il fatto che Bock segnalasse a Lauterbach quali fossero le spie fra i prigionieri. Allora Lauterbach faceva passar parola, in maniera discreta, che di quel tale non bisognava fidarsi.
Poi Bock si ammalò. Per un mese rimase a casa con molto tempo libero per riflettere. Capì, in sostanza, di essere entrato a far parte di un movimento clandestino. Prima o poi si sarebbe tradito. C’era soltanto una soluzione. Tornato al carcare, fissò Lauterbach con il suo sguardo fermo e gelido e disse: «L’unica via d’uscita da tutto questo è… uscirne!».
«Per voi non dovrebbe essere difficile», rispose cauto Lauterbach.
«Sarà molto difficile», rispose Bock, «perché quando me ne andrò ti condurrò con me!».
Lauterbach ammutolì. Un poliziotto e un detenuto che scappavano insieme da Brandeburgo: era una follia! La prigione di Brandeburgo era considerata dalle autorità carcerarie un “istituto di massima sicurezza”. I fabbricati erano circondati da un muro di sei metri e ad ogni angolo c’erano torrette di guardia con poliziotti armati di mitragliatrici. Durante la notte potenti riflettori illuminavano inesorabilmente la striscia di sabbia gialla lungo l’interno del muro. Un detenuto che avesse messo piede su questa rena accecante sarebbe stato colpito immediatamente da una raffica di pallottole.
Ogni persona e ogni cosa che passava attraverso i doppi cancelli della prigione era attentamente esaminata. Ad intervalli imprevedibili c’erano verifiche a sorpresa durante le quali uomini e cose erano meticolosamente controllati. Nessuno era mai riuscito a evadere dalla prigione di Brandeburgo.
Ma Bock era fiducioso nel suo progetto. Esaminò attentamente tutte le possibilità: documenti falsi, l’uniforme di una guardia, spegnere i riflettori e scalare il muro al buio, perfino l’idea fantasiosa di armare un certo numero di detenuti e liberare l’intera prigione. Ma una volta che lui e Lauterbach fossero riusciti a fuggire, come avrebbero attraversato il fiume Havel tra Potsdam e Berlino Ovest?
Stavano lavorando ai loro piano, quando Bock fu trasferito improvvisamente al carcere di Kottbus. Partì da Brandeburgo con un preavviso di poche ore.
Anche un uomo dall’animo più forte di quello di Lauterbach avrebbe disperato. Ora gli chiedevano di rado di pitturare o di fare scritte per i cartelloni. Il tempo si trascinò: trascorse quasi un anno. Poi Horst Bock tornò a Brandeburgo, trasferito su sua richiesta.
Le speranze di Lauterbach si riaccesero quando si rese conto che la sua guardia desiderava più che mai tentare la doppia fuga. Bock era stato a Berlino e avrebbe potuto facilmente passare da solo nel “mondo libero”. Invece, era tornato a prendere il suo amico.
Di nuovo, per giorni e giorni, osservarono, fecero piani per poi escluderli uno dopo l’altro. Poi, quando il proposito sembrava senza speranza, Bock ebbe un’improvvisa ispirazione. Nella sua sezione politica era stato scoperto un buco di 100 marchi nella contabilità. Una questione da poco, ma che aveva causato molto scompiglio tra i superiori di Bock. Perché non pareggiare il deficit vendendo i vecchi giornali che erano accatastati nel magazzino dell’ultimo piano? I superiori lo autorizzarono a farlo.
Alle ore 8 di giovedì 8 luglio 1954, un autocarro coperto si fermò davanti alle porte degli uffici della prigione. Restò in attesa, mentre i detenuti di una squadra comandata dal sergente maggiore Horst Bock salivano e scendevano dal magazzino dove Lauterbach consegnava ad ognuno un pesante fascio di giornali.
L’ultimo pacco fu portato giù da Lauterbach. All’interno vi era nascosto un abito civile. Sotto le finestre incustodite degli uffici, caricò il fascio di giornali sull’autocarro. Bock salì dietro di lui e provvide subito ad ammassare sopra i pacchi.
Quando l’autocarro si mosse, pioveva. Al primo cancello due custodi uscirono dal corpo di guardia. Alzando il bavero dei cappotti contro la pioggia, guardarono nell’autocarro. Videro un mucchio di giornali su cui era seduto Bock, loro superiore di grado. Fecero segno all’autocarro di proseguire. Le guardie del secondo cancello furono anche loro soddisfatte. «Avanti!», dissero.
Quando Lauterbach sentì partire l’autocarro si tolse l’uniforme da carcerato e si affrettò a indossare l’abito borghese. Nel momento in cui l’autocarro rallentò prima di un semaforo, saltò giù. Un istante dopo Bock lo seguì.
I due uomini si misero a camminare per la città di Brandeburgo, a cento metri l’uno dall’altro, come se non si conoscessero.
Erano le 9 passate. Nel carcere ci sarebbe stato l’appello a mezzogiorno. Non appena Lauterbach sarebbe risultato mancante, il segnale d’allarme di evasione, con posti di blocco stradali, automobili e motoscafi della polizia, avrebbe chiuso con un triplice sbarramento la frontiera tra Potsdam e Berlino Ovest. I due uomini avevano davanti a loro 50 chilometri e una pericolosa nuotata.
Mediante taxi e autobus, i fuggitivi – con nervi a fior di pelle – raggiunsero Potsdam. Poi attraversarono a piedi, con un passo non troppo affrettato, i prati e le siepi di Babelsberg, dove molti ufficiali russi avevano le loro villette, e scesero lungo un punto deserto lungo il fiume Havel.
Entrarono in acqua e cominciarono a nuotare verso la sponda opposta. La pioggia limitava la visibilità e il vento sollevava piccole onde fastidiose. Lauterbach, indebolito dalla scarsa alimentazione della prigione, procedeva con lentezza. A metà del fiume udirono il rumore che più temevano: il “pot-pot” di una barca a motore. Una lancia della polizia si dirigeva verso di loro.
O forse no? Per quanto sembrasse incredibile, gli agenti della polizia sovietica, che i due uomini vedevano addossati l’uno all’altro nella cabina, non li scorsero. La lancia passò a poche decine di metri da loro e si allontanò.
Continuarono a nuotare, giunsero a riva ansimanti, videro le uniformi “amiche” della polizia di Berlino Ovest e si arresero infine alla libertà. Il resto, come tutte le vicende a lieto fine, è presto detto.
Dopo i soliti accertamenti, venne loro concesso asilo politico e furono mandati in aereo nella Germania Ovest. La moglie di Bock fu tenuta sotto sorveglianza a casa sua per qualche settimana, poi, essendo incinta, le permisero di andare a farsi visitare da un medico. Con i suoi due bambini, riuscì a raggiungere Berlino Ovest, recandosi in un piccolo paese della Baviera, dove ora vive con il marito e i figli.
Horst sta imparando la professione di fotografo, aiutato dall’uomo che, con il suo coraggio, la sua lealtà e la sua bravura, riuscì a salvare dalla morte.
Qualche casa più in là, Alfred Lauterbach intaglia belle figure in legno secondo l’arte tradizionale della Sassonia, suo paese natale: un’oca che stuzzica una bambina, daini chiazzati non più grossi di un ninnolo per orologio, figure fiabesche delicatamente eseguite.
Per i Bock e per i Lauterbach, legati da un legame di paziente coraggio e abnegazione, la vita non è facile. Ma perlomeno è libera.
Di Claus Gaedemann e Robert Littell